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Dossier Ponte Genova, la strategia di Autostrade per salvare la concessione

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Dossier | N. 509 articoliCircolazione stradale

Ponte Genova, la strategia di Autostrade per salvare la concessione

Se Giovanni Castellucci ha di fatto confermato le anticipazioni del Sole 24 Ore che lo vedevano in uscita da Autostrade per l’Italia (Aspi), probabilmente non è stato solo per l’esigenza di concentrarsi sulla capogruppo Atlantia in vista dell’integrazione con la neoacquisita Abertis. Ci sarebbero anche ragioni legate alle strategie difensive del manager e della società nei due più importanti processi in cui sono coinvolti: il crollo del Ponte Morandi (43 morti) e l’incidente del bus precipitato dal viadotto Acqualonga (40 morti). Sono strategie raffinate. Lo si capisce non solo dal calibro dei legali messi in campo (come Paola Severino, ex ministro della Giustizia, che ha accompagnato Castellucci ieri al primo interrogatorio in Procura a Genova), ma anche da una serie di dettagli.

Mettiamoli tutti insieme. Ne uscirà un quadro che consentirà di capire anche come sta andando la battaglia per conservare la concessione, di cui il Governo ha avviato la «caducazione» subito dopo la tragedia di Genova e che teoricamente dovrebbe dare un primo esito entro febbraio.

L’uscita da Aspi
Castellucci pianificava di abbandonare il ruolo di amministratore delegato di Aspi già nella seduta di consiglio di amministrazione del 3 agosto, 11 giorni prima prima del crollo del Ponte Morandi. Ma è possibile che la mossa non sia stata determinata solo dal successo nell’operazione Abertis: negli stessi mesi, diveniva anche meno remota la possibilità di essere condannato ad Avellino per la tragedia del bus, dopo che il perito del giudice ha confermato e rafforzato il parere degli esperti nominati dai pm. Tanto che il 10 ottobre la pubblica accusa ha chiesto per lui 10 anni di reclusione.

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Altri potenziali problemi potrebbero venire dall’inchiesta sul crollo del cavalcavia di Camerano (Ancona) avvenuto sull’A14 il 9 marzo 2017 (due morti). Risale invece a dopo la tragedia di Genova il provvedimento che a Roma avvia il processo su difetti costruttivi e infiltrazioni camorristiche avvenuti nel decennio scorso; qui Castellucci non è indagato, ma lo sono altri dirigenti. L’udienza preliminare è prevista per il 6 dicembre e potrebbe svolgersi in un clima di tensione per ragioni che non dipendono da Aspi: a Gennaro Ciliberto, il testimone di giustizia le cui denunce hanno fatto partire le indagini, è stata negata (verbalmente e senza spiegazioni) la scorta per recarsi quel giorno al Tribunale di Roma.

Anche nell’ottica di tutte queste vicende, lasciare Aspi potrebbe essere consigliabile anche dopo una condanna in primo grado. È vero che lo statuto della società non richiede requisiti di onorabilità particolarmente stringenti e che tale condanna non necessariamente pregiudicherebbe la possibilità di partecipare a gare pubbliche. Ma è altrettanto vero che per la giurisprudenza della Cassazione l’amministratore delegato di una società concessionaria di pubblico servizio è una figura di garanzia.

Così la magistratura potrebbe anche valutare di percorrere la strada del commissariamento della società e il ministero delle Infrastrutture potrebbe utilizzare la mancata sostituzione dell’amministratore delegato per aggiungere un argomento a favore della caducazione della concessione. Senza contare le possibili ripercussioni negative sui mercati finanziari.

I controlli straordinari e l’incidente di lunedì
Meglio, dunque, rassicurare tutti. Cosa che Castellucci ha fatto sia davanti ai pm sia davanti ai giornalisti. Soprattutto quando ha parlato di «ulteriori verifiche e accertamenti sulla sicurezza della rete che stiamo conducendo anche con l’ausilio di società esterne». Si tratta di «un’operazione straordinaria di monitoraggio» il cui «esito è assolutamente confortante».

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Però, neanche 48 ore prima che Castellucci parlasse, un pezzo di cemento armato si è staccato dal ponte sul fiume Reno, al chilometro 10 dell’A14 (Bologna Borgo Panigale), in carreggiata nord. Il pezzo, pesante 2,4 chili, è stato proiettato verso l’alto dalle ruote di un camion, sfondando il parabrezza della vettura che seguiva e ferendo al volto una signora americana, che ora rischia di perdere un occhio.

Può anche essere stata solo una casualità e il ponte sul Reno non è una di quelle strutture complesse cui si riferiva primariamente Castellucci. Ma il pezzo che si è staccato era di sostegno a un giunto. È noto che i giunti di quel ponte causano molti sobbalzi ai veicoli in transito e a volte ne danneggiano le gomme, creando situazioni di pericolo anche solo per questo. Il tutto in uno dei tratti più trafficati d’Italia. Era quindi una situazione da tenere bene sotto controllo.

Disponibilità, ma limitata
Delle altre mosse difensive principali di Castellucci, alcune sono state evidenti e altre sono rimaste sotto traccia. Fra le prime, l’avvalersi della facoltà di non rispondere (scelta prevedibile in questa fase, fatta da tutti i 15 indagati finora interrogati dai pm, tranne tre) ma rilasciando dichiarazioni spontanee, consegnando documenti alla Procura e dichiarandosi disponibile a un nuovo interrogatorio quando sarà terminato l’incidente probatorio in corso (le prossime udienze sono previste per il 17 e 18 dicembre, più o meno quando i reperti di macerie inviati in Svizzera per analisi torneranno e i periti dei pm termineranno la loro relazione).

La disponibilità, però, è stata circoscritta «nei limiti delle competenze a lui facenti capo e delle deleghe previste dall’organizzazione societaria», ha chiarito la Severino. Una delimitazione non facile, sia a causa della giurisprudenza della Cassazione sia a causa della strategicità del Ponte Morandi. Essa, per esempio, comporta che il viadotto dovesse essere inserito nel programma di valutazione e messa in sicurezza antisismica previsto già dal 2003 dall’ordinanza n. 3274 della Presidenza del Consiglio, cosa che non risulta sia stata fatta. Dato che il programma incide sui piani economico-finanziari della società che sono fondamentali nel regolare il rapporto con lo Stato e sono di competenza del consiglio di amministrazione, si potrebbe argomentare che Castellucci debba rispondere anche su questi aspetti, che invece finora secondo Aspi sono di competenza delle sue strutture tecniche.

Risarcimenti e tariffe
Tra le dichiarazioni spontanee, quella di aver «già avviato in proprio l’iter per il giusto risarcimento a 150 eredi delle vittime» senza attendere i tempi delle assicurazioni. Una cosa che il Codice penale considera favorevolmente ai fini della determinazione della pena (mentre lamentele sui rimborsi erano giunte dai commercianti che hanno dovuto sospendere l’attività).

Castellucci ha anche detto che «gli interventi di manutenzione effettuati dalla società, sulla base delle previsioni della convenzione in essere, non vengono remunerati in alcun modo in tariffa» (una questione complessa, che non è noto se e come sia stata dettagliata davanti ai pm).

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La ricostruzione impossibile
Non sembra, ma anche la ricostruzione del Ponte può rientrare fra le strategie difensive. Questa è una tra le poche spiegazioni di un’apparente stranezza: fra i progetti di ricostruzione presentati al commissario-sindaco Marco Bucci, tre prevedono il riutilizzo dei monconi di viadotto rimasti in piedi, nonostante il fatto che già una settimana dopo il crollo i periti dei pm avessero comunicato che erano anch’essi a rischio.

L’allarme fu confermato qualche giorno dopo dai documenti acquisiti anche presso Aspi dalla commissione ministeriale ispettiva che svolgeva l’inchiesta amministrativa sul disastro: dalle schede delle ispezioni svolte nel tempo e da altre stime, emergevano criticità.

È molto dubbio che eliminare queste criticità sia più conveniente rispetto a ricostruire tutto con un progetto completamente nuovo: già prima del crollo si valutava che quella che comportava l’abbattimento della vecchia struttura fosse la soluzione migliore. Né l’ipotesi di salvare i monconi è stata mai evocata da Bucci. E allora perché qualcuno la tiene in vita?

Secondo il progetto di retrofitting che Aspi fece approvare dal ministero prima del crollo e l’interpretazione che di essi hanno dati i dirigenti della società sentiti dalla commissione, gli interventi previsti dal progetto non servivano a scongiurare un crollo probabile, ma a migliorare la struttura prolungandone la vita utile. Quindi ora far vedere che si vuole recuperare i monconi significherebbe confermare che, tranne la parte crollata per cause ancora non accertate e che si conta di dimostrare fossero imprevedibili, la struttura era ancora “buona”.

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Ciò sarebbe di aiuto ad Aspi e potrebbe non essere casuale che uno dei tre progetti che prevedono il riutilizzo dei monconi sia stato presentato dal Codacons: almeno negli ultimi anni, l’associazione dei consumatori non ha avuto nei confronti della società quell’atteggiamento aggressivo che non di rado la contraddistingue con altre controparti. E, quando Aspi è stata condannata per la contraffazione del brevetto del Tutor, l’associazione è intervenuta contro gli interessi dell’impresa che aveva fatto causa alla società.

Il Codacons è membro della Consulta per la sicurezza e la qualità del servizio, costituito una dozzina di anni fa proprio da Aspi. Un organismo che, aldilà della evidente pubblicità a pagamento che ne ha fatto la società in occasione del decennale, non ha mai dato grandi segni di incisività. Per esempio, dagli ordini del giorno delle sedute che sono stati resi pubblici, non risulta si sia mai occupato della tragedia di Avellino, nonostante all’epoca (2013) fosse l’incidente stradale più grave della storia d’Italia assieme al rogo nel traforo del Monte Bianco (1999).

I ritardi del ministero
Il Codacons è riuscito a passare il filtro dell’incidente probatorio, facendosi ammettere come parte offesa nel processo di Genova. Così due suoi periti hanno avuto accesso all’area riservata dove sono state custodite le macerie più rilevanti. Il ministero delle Infrastrutture, nonostante abbia ingaggiato la difficile battaglia per togliere la concessione ad Aspi, era assente: ha rinunciato a costituirsi parte offesa, mentre almeno per ora non ha esitato a garantire il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato a uno dei principali indagati, il suo dirigente Roberto Ferrazza. Si può recuperare in futuro, ma forse già adesso stanno accadendo cose importanti che potrebbero influenzare l’esito del processo.

Non si ha notizia di attività supplementari in corso al ministero per controllare tutta la rete Aspi e contestare eventualmente altre inadempienze: ufficialmente è atteso solo l’avvio dell’agenzia per la sicurezza stradale e ferroviaria, prevista dal decreto Genova approvato qualche giorno fa. I tempi non saranno brevi, mentre i termini della procedura avviata dal ministero contro Aspi continuano a correre.

Così, per quel che se ne sa ad oggi, la carta più importante in mano al ministero sembra la relazione della commissione ispettiva sul crollo del Morandi, che ha scoperto non poche anomalie gravi ma ha avuto solo un mese di tempo per operare e quindi non è riuscita a completare l’acquisizione di altri atti. Ci sono poi gli esiti di alcuni controlli svolti nel 2016-2017 dall’ufficio per il Centro-Sud della direzione generale di vigilanza sulle concessioni autostradali (Dgvca), che riguardano soprattutto problemi alle barriere di sicurezza. È possibile che siano in corso altre attività tenute rigorosamente segrete.

Di certo, più approfonditi sono stati gli studi giuridici sulla possibilità di togliere la concessione ad Aspi senza incappare nei pesantissimi costi previsti dalla convenzione in vigore. Ma non meno approfonditi saranno gli studi della controparte.

Il risiko del Triveneto
Ci sono comunque altri segni che indicano una volontà ministeriale di rendere la vita difficile al gruppo Atlantia. Si intravvedono soprattutto su due fronti:

- il mantenimento della promessa di portare anche le concessioni autostradali precedenti al 2011 sotto i poteri dell’Art (l’autorità regolatoria di settore);

- il modo in cui si sta cercando di sciogliere i nodi incrociati delle autostrade del Triveneto.

Quest’ultima partita riguarda anche Aspi, sia pure indirettamente: al centro c’è la Brescia-Padova, controllata da Abertis che ora confluirà in Atlantia.

Questo gestore ha la concessione scaduta e nei mesi scorsi, prima che s’insediasse l’attuale governo, ha cercato di ottenere una proroga, legata al completamento del collegamento autostradale Valdastico Nord. La proroga è stata bocciata dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, ma l’ultima parola va al ministero e tra gli enti locali veneti e trentini ora pare prevalere la volontà di fare quest’autostrada.

A giudicare anche da un emendamento al decreto fiscale bocciato ma in lista per confluire nella manovra economica di fine anno, il Governo non si opporrà. Ma metterà paletti per evitare che si ripetano proroghe basate su investimenti di dubbia utilità pubblica o fattibilità, che consentono anche di rincarare i pedaggi e/o di tenerli più alti del necessario.

L’emendamento prevede che, quando una concessione scade e non viene ancora riassegnata, si fissano un programma di investimenti (soprattutto per la sicurezza) e il relativo piano finanziario. Il tutto senza arrivare a una vera e propria proroga.

Nella prima versione dell’articolo era stato erroneamente scritto che tra i rinviati a giudizio (11 persone) c’era l’architetto Michele Donferri. Invece i due dipendenti di Aspi rinviati a giudizio sono Vittorio Giovannercole, trasferito alla Sat (controllata Aspi che gestisce i due tronchi autostradali in esercizio della Livorno Civitavecchia) e Gianni Marchi, che all’epoca dei fatti erano sottoposti dell’architetto Donferri, col quale ci scusiamo.

M.Cap.

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