La novità più dirompente del decreto sicurezza, approvato in via definitiva dalla Camera a fine novembre e ora promulgato dal Quirinale, è indicata nell'articolo numero 1 del testo: l'abolizione dei «permessi di soggiorno temporanei
per esigenze di carattere umanitario», una delle tre tipologie di assistenza che potevano essere riconosciute ai richiedenti
asilo (le altre due sono lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria). La cosiddetta protezione umanitaria, istituita dal decreto legislativo 25 del 2008, consisteva in un titolo di soggiorno della durata massima di due anni, durante
i quali i beneficiari potevano accedere ad attività di lavoro, corsi di formazione e l’alloggio in strutture statali dedicate
alle prima accoglienza (come i Cara e i Cas).
Una fra i primi risultati della sua eliminazione è che gli ex beneficiari stanno finendo, letteralmente, per strada. Le Prefetture di tutta italiana hanno infatti iniziato a comunicare ai gestori dei vari centri che gli - ex - titolari di protezione umanitaria dovranno abbandonare le strutture, «conseguente» alla cessazione dell'assistenza umanitaria che era stata loro riconosciuta. Secondo la tesi del governo, lo step successivo dovrebbe essere quello dell'espulsione dall'Italia. Nei fatti, è più probabile che la misura alimenti il sottobosco di irregolarità che dovrebbe essere osteggiato proprio dal decreto e il «giro di vite» voluto dall'esecutivo. I rimpatri prevedono costi e procedure che sembrano fuori dalla portata del governo attuale, favorendo il deflusso di decine di migliaia di migranti (regolari) nel circuito della clandestinità.
Il costo medio di un rimpatrio: quasi 6mila euro a migrante
Di quante persone si parla? Il quotidiano Repubblica ha stimato circa 40mila «espulsioni» dai centri di prima accoglienza,
cifra che potrebbe lievitare con il ridimensionamento degli Sprar (i centri di seconda accoglienza: nel loro caso, i titolari
di protezione umanitaria si troveranno a rischio espulsione alla scadenza del permesso). Un report della Corte dei contisulla gestione della prima accoglienza rileva che, nel 2016, il riconoscimento della protezione umanitaria ha riguardato il 52% delle 36.660 domande accolte: l'equivalente di circa 19mila persone, ben al di sopra del 13% riconosciute nello status di rifugiato e del 35% che ha avuto
accesso alla protezione sussidiaria. In ogni caso il totale si aggira su decine di migliaia di migranti regolari, destinati
ora al rimpatrio. In teoria, perché la procedura richiederebbe un'accelerazione prodigiosa degli standard attuali di espulsioni.
Secondo Eurostat, l'agenzia di statistiche europee, l'Italia ha effettuato nel 2017 appena 7mila rimpatri a fronte di circa 32mila soggetti irregolari rintracciati. Su scala europea si sale a 150mila rimpatri, pari comunque a meno di un terzo dei 500mila promessi in campagna elettorale dall'attuale vicepremier Matteo Salvini.
La difficoltà di dare seguito alle espulsioni dipende sia dai costi che dalle complicazioni istituzionali. Per quanto riguarda il capitolo della spesa, non si può sottovalutare l'esborso medio per l’operazione. Un'analisi del portale Euobserver, basata su un campione di 100 voli di ritorno coordinati dall’agenzia Frontex, ha stimato un costo medio di 5.800 euro a rimpatrio: dai mille euro circa per una operazione di breve raggio (Germania-Albania) ai 9mila euro previsti per il ritorno di una singola persona in Nigeria. Senza tralasciare imprevisti o casi specifici che possono gonfiare la spesa ben al di là dei costi standard. Un report dell'Ocp Policy Center, un think tank marocchino, ricorda il caso di una pratica di rimpatrio avviata dal governo svizzero su un'imbarcazione di migranti dal Togo. Il costo medio fu di 90mila euro a persona. Accreditando la stima di circa 40mila persone da espellere, l'esborso complessivo arriverebbe a 232 milioni di euro. Il secondo nodo è di natura amministrativa e diplomatica. Le pratiche di rimpatrio effettive richiedono un accordo bilaterale con il paese di origine del migrante. Oggi l'Italia ha stipulato accordi solo con una ristretta cerchia di paesi (come Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria). Non risultano attivi patti bilaterali con paesi come Eritrea e Iraq, rispettivamente secondo e terzo paese di provenienza dei 23.011 migranti sbarcati sulle nostre coste al 30 novembre 2018. Senza un'intesa, le nazioni di origini si limiterebbero a respingere il “rinvio” di propri cittadini.
© Riproduzione riservata