Tutti pazzi per la sanità integrativa - ovvero il complesso intreccio tra Fondi sanitari, assicurazioni e welfare aziendale - che continua ad espandersi e a moltiplicare le sue declinazioni, con il numero dei fondi passati da 255 a 323 nel periodo 2010-16, un numero di iscritti più che triplicato - da 3,31 a 10,6 milioni - e un incremento delle risorse impegnate, passate da 1,61 a 2,33 miliardi di euro. Ma farà bene alla salute e alle tasche dei cittadini? A fare il punto con un report indipendente è la Fondazione Gimbe, in occasione dell’avvio – lo scorso 17 dicembre - da parte della presidente della commissione Affari sociali della Camera, Maria Lucia Lorefice, di un’indagine conoscitiva sulla sanità integrativa.
Priorità al riordino legislativo
«Dalla nostra analisi – spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – emerge l’inderogabile necessità di
un riordino legislativo, in quanto i fondi sanitari sono diventati in prevalenza sostitutivi di prestazioni già offerte dal
Servizio sanitario nazionale. In particolare le crepe di una normativa frammentata e incompleta hanno permesso all’intermediazione
finanziaria e assicurativa di cavalcare l’onda del welfare aziendale, generando profitti grazie alle detrazioni fiscali di
cui beneficiano i fondi sanitari e proponendo prestazioni che alimentano il consumismo sanitario e aumentano i rischi per
la salute delle persone».
Realmente “integrativa” solo una prestazione su tre
I dati che il report Gimbe evidenzia dimostrano che la percentuale delle risorse destinate a prestazioni realmente “integrative”
rimane stabile intorno al 30%. E a fronte di un incremento medio annuo degli iscritti ai fondi sanitari del 22,3%, quello
delle risorse impegnate è del 6,4 per cento. «Sostanzialmente i fondi incassano sempre di più – continua Cartabellotta - ma
rimborsano sempre meno. Infine, i fondi che intrattengono “relazioni” con compagnie assicurative sono passati dal 55% nel
2013 all’85% nel 2017».
Spesa privata intermediata: una fotografia sfocata
Le cifre in ballo sono sempre più considerevoli. Secondo il report Gimbe, nel 2016 la spesa privata intermediata ammonta a
5,6 miliardi di euro ed è sostenuta da varie tipologie di “terzi paganti”: 3.8 mld da fondi sanitari e polizze collettive,
593 milioni da polizze assicurative individuali, 576 milioni da istituzioni senza scopo di lucro e 601 milioni da imprese.
I fondi sanitari registrati all’anagrafe ministeriale sono 323 per un totale di 10,6 milioni di iscritti (73% lavoratori,
22% familiari e 5% pensionati). «Relativamente ai dati economici – continua Cartabellotta - non si conosce né l’ammontare
dei contributi versati dagli iscritti, né l’entità del mancato gettito per l’erario connesso alle agevolazioni fiscali, mentre
sono noti i rimborsi effettuati dai fondi sanitari, pari a 2,33 miliardi. Di tali risorse, quelle destinate a prestazioni
integrative – come odontoiatria e assistenza a lungo termine - sono poco più del 32%. Questo significa che quasi il 70% delle
risorse copre prestazioni già incluse nei Livelli essenziali di assistenza». Prestazioni quindi che entrano direttamente in
concorrenza con il sistema delle cure pubbliche. Un altro dato del Report Gimbe invita a «frenare gli entusiasmi per i fondi
sanitari»: il 40-50% dei premi versati dai cittadini «non si traducono in servizi per gli iscritti perché erosi da costi amministrativi
– spiega Cartabellotta - fondo di garanzia e oneri di riassicurazione e da eventuali utili di compagnie assicurative».
L’assalto alle cure universali
In conclusione, secondo l’analisi della Fondazione Gimbe, in Italia stiamo assistendo a un vero e proprio «assalto all’universalismo»:
da un lato «il mix tra interminabili tempi di attesa e ticket esosi – si legge nel Report - sposta una percentuale sempre
più elevata di persone verso il privato, in particolare per le prestazioni specialistiche e diagnostiche, la cui domanda è
facilmente manipolabile e misurabile in termini quantitativi, molto meno in termini di qualità e appropriatezza».
Il paziente si trasforma in consumatore
Dall’altro, si sta facendo largo la percezione collettiva che il ruolo del Ssn è quello di mero produttore di prestazioni
sanitarie. Il che significa che quando il sistema pubblico non sarà in grado di produrle a sufficienza, alla luce del continuo
disinvestimento di risorse e del processo di invecchiamento della popolazione, la produzione sarà assicurata tempestivamente
da erogatori privati. Attori che, scrive la Fondazione Gimbe, «hanno già intercettato i bisogni del cittadino-consumatore
e i finanziatori privati (assicurazioni) promuovono il secondo pilastro puntando soprattutto sui “pacchetti prevenzione” che
da un lato alimentano consumismo sanitario e medicalizzano la società e dall’altro aumentano la soddisfazione di cittadini
inconsapevoli di costi e rischi. Dal canto loro, le agevolazioni fiscali di cui godono i fondi sanitari integrativi, in costante
aumento per il loro inserimento nei contratti di lavoro, sottraggono denaro pubblico alla fiscalità generale e indirettamente
al Ssn».
Come riformare il secondo pilastro
Un corto circuito da risolvere al più presto con un riordino normativo mirato. Ecco perché, nell’ambito della campagna #salviamoSSN,
la Fondazione Gimbe invoca la necessità di un confronto politico finalizzato alla definizione di un Testo Unico in grado di
«restituire alla sanità integrativa il suo ruolo originale, ovvero quello di coprire prevalentemente prestazioni non incluse
nei Lea; evitare che il denaro pubblico, sotto forma di incentivi fiscali, venga utilizzato per alimentare i profitti dell’intermediazione
finanziaria e assicurativa; tutelare cittadini e pazienti da derive consumistiche; garantire a tutti gli operatori del settore
le condizioni per una sana competizione; assicurare una governance nazionale, oggi minacciata dal regionalismo differenziato».
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