È una recessione «tecnica». Il linguaggio politico - di fronte ai due trimestri di calo del pil, il secondo certificato oggi dall’Istat - si è subito appropriato di questa definizione, quasi a suggerire che si tratti di un fenomeno meno grave di una recessione “non tecnica”, o che sia comunque transitoria. Non è esattamente così: quell’aggettivo ha un ruolo preciso nell’analisi economica, sia pure legato più al lavoro degli economisti privati, che di quelli accademici.
Il pil non basta
Tutto nasce dal fatto che individuare una recessione non è per nulla facile: l’andamento del pil da solo non basta. Si immagini
- per esaminare uno solo dei casi possibili - un’economia emergente o in via di sviluppo che cresca del 2% annuo, ma che
aumenti la popolazione del 3% annuo (una trentina di paesi almeno cadono ancora oggi in questa categoria). Il pil pro capite,
che è una misura approssimata del reddito pro capite, in questo caso scende malgrado l’incremento del pil. Quel paese è allora
sicuramente in difficoltà economiche, e spesso si parla di recessione, per le economie meno avanzate, anche con ritmi di crescita
del pil che altrove sarebbero giudicati robusti o accettabili.
Le recessioni «certificate»
Situazioni simili si verificano però anche in paesi sviluppati. Non a caso il National Bureau of Economic research di Cambridge
( nel Massachusetts), per individuare l’inizio e la fine di una recessione usa una pluralità di dati: il pil, ma anche l’occupazione,
il reddito, la produzione industriale, le vendite al dettaglio e quelle all’ingrosso. Con un pesante inconveniente: l’istituto
- che studia dal 1920 il ciclo economico - “certifica” l’esistenza di una recessione (statunitense) solo quando questa è finita.
In altre economie mancano istituti di ricerca pubblici o privati che svolgano un ruolo analogo e il cui lavoro sia universalmente
riconosciuto.
Le regole del pollice
Analisti, mercati, governi hanno però bisogno di capire se una recessione sia in atto nel più breve tempo possibile. Sono
state allora individuate, già negli anni 60, una serie di regole pratiche - “rules of thumb” o “regole del pollice” - per
distinguere una recessione da una fase breve e transitoria di difficoltà economica. La regola della flessione del pil per
due trimestri è una di queste regole, e si concentra la durata del declino dell’attività economica.
Una pluralità di regole
Altre regole sono state un po’ dimenticate. La flessione per sei mesi della produzione industriale si riferisce anch’essa
alla durata del declino. Il calo di 1,5 punti percentuali del pil, la flessione di 15 punti percentuali dell’0ccupazione (non
agricola), l’aumento della disoccupazione di due punti punti percentuali (purché superi il 6%) riguardano invece la profondità
della recessione. L’aumento della disoccupazione nel 75% dei settori economici (non agricoli) della durata di almeno sei mesi
si riferisce invece alla diffusione. Un riassunto è apparso nel 1974 in un articolo sul New York Times, scritto da Julius Shiskin, allora responsabile del Bureau of Labor Statistics. A questi indicatori di
recessione va poi aggiunto un aumento della disoccupazione di almeno due punti percentuali per almeno 12 mesi.
Recessione tecnica e recessione conclamata
In tutti questi casi si parla di recessione “tecnica”, ma solo nel senso che l’analisi è provvisoria e nulla permette ancora
di stabilire - in un senso o nell’altro - la sua gravità, le sue implicazioni, la sua durata. L’unica certezza è che non si
tratta di un semplice “raffreddore”: due trimestri, per tornare all’unica regola sopravvissuta, sono del resto sei mesi, un
periodo già abbastanza prolungato. Al punto che si può essere ragionevolmente sicuri che la ripresa non sarà certo immediata
e che alcuni effetti ritardati - sull’occupazione, per esempio - potrebbero sentirsi nei prossimi mesi.
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