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nodi dell’«autonomia»

In Calabria la spesa pubblica pesa sul Pil il doppio che in Lombardia - I nodi dell’«autonomia» in arrivo

In Calabria il peso della spesa pubblica sul Pil è doppio rispetto a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Ma i risultati di questa spesa, dalla sanità alle infrastrutture, sono imparagonabili, e i conti delle amministrazioni territoriali, dai Comuni alle aziende sanitarie, ballano spesso sull’orlo del default (o anche oltre). Si avvitano intorno a questa contraddizione le polemiche sull’Autonomia differenziata, destinato a riesplodere nei prossimi giorni in vista dell’appuntamento al consiglio dei ministri sulla bozza di intesa con le tre Regioni del Nord.

I numeri
A offrire nuova benzina al dibattito è un rapporto del Centro Studi Sintesi presentato questa mattina a Milano insieme alla 7° edizione del report dell'Osservatorio Economia e Territorio delle Cna di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. L’incontro è un appuntamento di fine inverno ormai abituale per gli artigiani del nuovo «triangolo del Pil». Ma quest’anno numeri e richieste entrano nel vivo dell’attualità più stretta, dopo che le questioni federaliste erano state sacrificate sull’altare della crisi.
Vediamoli, allora, questi numeri: in Calabria Stato ed enti territoriali spendono ogni anno una somma che vale il 59,3% del Pil locale, in Sardegna, Puglia e Sicilia si oscilla fra il 54 e il 56%, e in Campania ci si attesta al 48,3%. In Lombardia invece la spesa pubblica si ferma al 29,3% del Pil, in Veneto arriva al 31,9% e in Emilia Romagna al 32,5 per cento.

Gli effetti della spesa
Come in tutti i rapporti numerici, non bisogna dimenticare il denominatore. Il reddito pro-capite lombardo vale 2,3 volte quello calabrese, e anche le diverse dimensioni delle due regioni influiscono sul rapporto fra spesa pubblica e Pil. Il problema è che le differenze si ingigantiscono ulteriormente quando dai valori si passa agli effetti di questa spesa sulla qualità degli interventi pubblici e sul livello dei servizi. È qui che il dibattito sull’autonomia si incaglia: i tifosi dell’autonomia differenziata puntano a trattenere per questa via più risorse fiscali sul territorio sul presupposto che molti trasferimenti siano “buttati”, gli oppositori lamentano la «secessione dei ricchi» e il rischio di dire addio alla solidarietà nazionale. Ma tutto dipenderà da una variabile finora rimasta in ombra: i cosiddetti «livelli essenziali delle prestazioni», che dovrebbero stabilire quanti insegnanti, posti letto, assistenti sociali e così via servono in base alla popolazione per garantire che l’amministrazione pubblica faccia davvero il proprio mestiere. Lo imporrebbe la Costituzione. Ma finora questi parametri sono rimasti lettera morta.

I «costi standard»
Il testo dell’intesa da portare in consiglio dei ministri prima della firma del premier Conte e dei presidenti di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna è al rush finale. L’avvio dell’autonomia differenziata, con l’attribuzione alle tre Regioni di una serie di funzioni aggiuntive su istruzione, gestione del territorio, ambiente, infrastrutture avverrà all’inizio a costo storico. In pratica si dovrà calcolare quanto lo Stato oggi spende per le funzioni che si trasferiscono, all’interno di un pacchetto che nel complesso può valere fino a 21 miliardi, e trasformare queste somme in compartecipazioni ai tributi. La «perequazione», cioè il meccanismo che ogni anno sposta risorse dai territori più ricchi a quelli più poveri, non cambierebbe di una virgola. Le novità arriverebbero dopo. Il modello è quello già in vigore nei Comuni, che attribuisce una quota (crescente nel tempo) di fondi in base al rapporto tra la capacità fiscale, cioè il gettito delle tasse di ogni territorio, e i «fabbisogni standard», cioè il costo efficiente dei servizi pubblici gestiti da quel livello di governo. L’obiettivo degli «autonomisti» è costruire un’architettura analoga anche per i fondi regionali, in un percorso che in prospettiva vedrebbe penalizzate le Regioni dove la spesa e più alta e i risultati minori. Ma è un percorso accidentato, politicamente e tecnicamente. E i tentativi del passato, a partire dai «costi standard» della sanità in cui la politica ha contato molto di più della matematica, non aiutano.

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