A poche ore da un consiglio dei ministri che si annunciava difficilissimo è arrivato il via libera del ministero dell’Economia al capitolo finanziario dell’«autonomia differenziata» chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le funzioni aggiuntive chieste dalle Regioni del Nord saranno finanziate cedendo loro una quota dell’Irpef o di altri «tributi erariali» (per esempio l’Iva) generata sul territorio. Per la Lega è una vittoria netta, sul terreno più identitario che c’è. Per i Cinque Stelle un rospo ingoiato in silenzio. Ma se la politica è importante, le implicazioni pratiche lo sono di più.
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La spesa storica
La «compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi e di eventuali altri tributi erariali»,
come recita il testo su cui il governo ha trovato l’accordo sotto la regia del sottosegretario al Mef Massimo Garavaglia e
della ministra per gli Affari regionali Erika Stefani, servirà a finanziare le competenze aggiuntive chieste dalle Regioni.
Nei primi anni il tutto avverrà in base alla spesa storica, cioè quella che oggi lo Stato sostiene sul territorio per le stesse
funzioni. Esempio: oggi lo Stato spende in Lombardia 5,6 miliardi per la scuola. Se tutto il pacchetto istruzione sarà assegnato
alla Regione, dovrà essere accompagnato da 5,6 miliardi di Irpef-Iva «compartecipata»
I costi standard
Entro un massimo di tre anni, secondo un calendario più ambizioso dei cinque ipotizzati all’inizio, bisognerà passare ai «fabbisogni
standard». Una serie di decreti di Palazzo Chigi, dopo un lavoro tecnico che si annuncia complesso, dovranno individuare il
«costo efficiente» delle funzioni assegnate a ogni regione. Il finanziamento garantirà quel costo. Sul punto, è saltata l’ipotesi
più “audace” chiesta in particolare da Lombardia e Veneto: quella di parametrare gli standard alla «capacità fiscale» di ogni
territorio. In pratica, le regioni più ricche avrebbero avuto diritto a standard di spesa più generosi, e quindi a livelli
di servizio maggiori. Ma il meccanismo, com’era ampiamente prevedibile, nel testo non c’è più. E la sua assenza è stata determinante
per far accendere il semaforo verde al ministero dell’Economia.
La «clausola ponte»
Al suo posto c’è però un’altra clausola che potrebbe aumentare le risorse garantite alle Regioni del Nord. Se entro tre anni
non saranno individuati i fabbisogni standard, ipotesi non di scuola, il totale delle risorse assegnate per le nuove funzioni
«non potrà essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse funzioni».
E dal momento che al Nord la spesa pro capite per molti servizi pubblici è inferiore alla media nazionale, da lì potrebbe
arrivare una compartecipazione più ricca.
E adesso?
L’ok sui fondi, se la maggioranza riuscirà a gestire i mal di pancia che crea, toglie dal tavolo uno degli ostacoli più grossi
sulla strada dell’intesa. Ma ne restano altri. Per capire i termini del problema bisogna ricordare come funziona l’autonomia
differenziata. La Costituzione, all’articolo 117, elenca 23 materie in cui la legislazione è «concorrente» fra lo Stato, che
fissa i principi fondamentali, e le Regioni, che disciplinano le regole di dettaglio. È un ventaglio di materie amplissimo,
che va dall’istruzione alla sanità, dal lavoro (sicurezza e politiche attive) alle infrastrutture (porti, aeroporti e grandi
reti dell'energia), dall’ambiente ai beni culturali fino alla protezione civile. Le Regioni, sempre secondo la Costituzione
(articolo 116), possono chiedere allo Stato «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» chiedendo più competenze
su queste materie concorrenti. A concedere questa autonomia rafforzata è una legge approvata da Camera e Senato a maggioranza
assoluta dei componenti sulla base di una «intesa» fra lo Stato e la Regione interessata.
A che punto siamo
Siamo all’intesa. O, meglio, saremmo all'intesa. Ma l’intesa ancora non c’è, anche dopo l’accordo governativo sui fondi. Il
quadro è diviso in due: Lombardia e Veneto, che hanno chiesto il pacchetto completo delle 23 competenze, si sono visti dire
molti «no» dai ministeri, per cui la decisione finale su ogni materia andrà presa direttamente in consiglio dei ministri.
L’Emilia Romagna, che ha un’ambizione autonomista più moderata, ha chiesto una serie di funzioni più piccola, limitata a 15
delle 23 competenze in gioco. E offre meno problemi. Anche perché in genere Bologna chiede di potenziare gli strumenti di
programmazione nelle varie materie, dal fisco alla finanza locale, dalle infrastrutture ai beni culturali. Milano e Venezia
hanno invece messo nero su bianco una serie di esclusive che i ministeri, soprattutto quelli targati M5S, non hanno intenzione
di concedere.
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A chi vanno strade e autostrade?
Perché i soldi sono solo il capitolo più visibile di un tiro alla fune fra governo e regioni che ha riguardato tutte le principali
competenze in gioco, e che si è inceppato con i ministeri a guida Cinque Stelle. La Lombardia, per esempio, chiede di subentrare
allo Stato nelle concessioni su una serie di autostrade, strade e ferrovie del suo territorio, con retrocessione al demanio
regionale di beni, impianti e infrastrutture e l'attribuzione alla regione delle funzioni di programmazione e controllo. Il
Veneto fa lo stesso per le sue ferrovie e altre infrastrutture. Il ministero delle Infrastrutture non è disponibile a cedere.
Ticket e ospedali
Sulla sanità, il ministero della Salute offre competenze su sei punti (assetto istituzionale, organizzazione dell'offerta
ospedaliera, ampliamento della rete formativa, possibilità di abolire il ticket fisso, programmazione degli investimenti sull'edilizia
sanitaria e forme aggiuntive di ticket territoriali). Lombardia Veneto chiedono invece rispettivamente 11 e 14 competenze
legislative e amministrative che si allargano alla disciplina degli incarichi, all'utilizzo di risorse aggiuntive per personale
e acquisti e competenze aggiuntive sul payback dei farmaci.
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A Brera una pinacoteca «regionale»?
Con il ministero dei Beni culturali il conflitto è sulle sovrintendenze e i loro poteri. Milano, per esempio, chiede autonomia
su un elenco di beni statali dalla Pinacoteca di Brera al Palazzo Ducale di Mantova, dal Parco Nazionale della Val Camoninca
alla Certosa di Pavia, con l'attribuzione alla regione delle «relative risorse umane, finanziarie e strumentali». Il Veneto,
più sinteticamente, vuole decidere in prima persona sulle sovrintendenze e la tutela dei beni paesaggistici. Il ministero
non cede.
Sul reddito di cittadinanza Di Maio non cede
Sulle «politiche attive del lavoro» chieste da Lombardia e Veneto il conflitto è direttamente con il vicepremier Di Maio,
che ha stoppato l'ipotesi nella sua qualità di ministro del Lavoro. La ragione è politica: già l'attuale competenza in coabitazione
fra Stato e Regioni alimenta le polemiche sull'attuazione del reddito di cittadinanza soprattutto nella parte che punta a
rafforzare i centri per l'impiego. Cedere altri poteri alle regioni significherebbe perdere del tutto il controllo sulla misura
chiave del programma a Cinque Stelle.
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I prossimi passi
Sarà il premier Conte a dover cercare un punto di mediazione possibile fra le richieste regionali e le resistenze sollevate
dai ministeri. Dopo di che il compromesso, se si troverà, dovrà andare bene ai governatori delle regioni interessate. La partita,
insomma, è ancora tutta da giocare.
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