A quasi un anno dal voto del 4 marzo 2018, c’è un’emergenza che fatica a entrare nell’agenda del governo Lega-Cinque stelle. Neanche a dirlo, una delle più gravi: l’occupazione dei giovani, il blocco sociale lasciato ai margini delle politiche economiche del governo gialloverde e dei suoi predecessori.
È vero che l’esecutivo ha appena incassato i dati dell’ultimo osservatorio Inps sul precariato, trainati da aumento generale delle assunzioni (7,4 milioni, il +5,1% rispetto al 2017), con incremento massiccio delle assunzioni a tempo indeterminato (1.229.950, pari a +7,9% rispetto all’anno precedente) e delle stabilizzazioni di rapporti a termine (con aumento delle conversioni in tempo indeterminato da 299.258 a 527.333, a fronte di un calo dei rapporti a tempo da 221.675 a 191.477 e dei rapporti di somministrazione da poco più di 9omila a 64.124).
Ma l’aumento di contratti permanenti, per quanto vistoso possa essere, non risolve un altro deficit di fondo: la mancata creazione di lavoro di qualità per i giovani. Gli ultimi dati disponibili dell’Istat, riferiti a dicembre, registrano un tasso di disoccupazione del 31,9% nella fascia 15-24 anni. Nel blocco dei 25-34 anni si scende al 15,7%, con un calo dell’1% su scala annua, ma al costo di un aumento identico (+1%) dell’incidenza degli inattivi: i cittadini che hanno rinunciato del tutto alla ricerca di impiego, abbandonando così lo status ufficiale di disoccupati.
Lo scenario si incupisce ancora guardando i cosiddetti dati complementari, gli indicatori che registrano le categorie esterne al dualismo occupati-disoccupati: ad esempio i Neet, i giovani che non studiano né lavorano, arrivati a 2,2 milioni nel terzo trimestre 2018. I numeri sono chiari. La risposta politica dell’esecutivo, al momento, meno. Le misure adottate per contrastare la «non occupazione» degli under 35, favorendo forme di lavoro stabile, sembrano corrispondere al reddito di cittadinanza e appunto al decreto dignità, oltre a ritocchi a programmi come l’alternanza scuola-lavoro. È presto per valutarne l’efficacia, ma le prime avvisaglie non sono delle migliori.
Il reddito di cittadinanza, «l’ircocervo» fra sussidi e politiche attive
La misura che dovrebbe rivolgersi più esplicitamente alla creazione di lavoro è il cosiddetto reddito di cittadinanza, un’integrazione
reddituale fino a un massimo di 780 euro per chi vive sotto a un certo standard di entrate mensili. L’effetto di leva per
l’occupazione, anche giovanile, dipenderebbe da una delle pre-condizioni della misura: i beneficiari devono accettare almeno
una delle tre proposte veicolate dai centri per l’impiego nell’arco di due anni. «Il problema è che siamo di fronte a un “ircocervo”
fra politica contro la povertà e politica attiva, inefficace sia dal primo che dal secondo punto di vista - spiega al Sole
24 Ore il sociologo del lavoro Emilio Reyneri, professore emerito alla Bicocca di Milano - Il rischio è che diventi una distribuzione
di sussidi senza stimolare poi la ricerca di impiego».
In primo luogo, come ha scritto il Sole 24 Ore, è almeno dubbio che i centri per l’impiego italiani riescano a veicolare offerte di lavoro per una platea di circa 2,7 milioni di beneficari singoli (stima Istat), dopo aver contribuito ad appena il 3% dei ricollocamenti nell’arco di sette anni. In seconda battuta, paradossalmente, il reddito di cittadinanza si rivolge solo in parte al suo target di chi sta cercando lavoro: a beneficiarne sarà solo il 18% dei disoccupati, categoria che rappresenta a sua volta il 22,7% del totale dei beneficiari (dietro alle casalinghe, pari al 25%). Infine, la misura rischia di sfavorire uno degli obiettivi centrali delle riforme del governo: la stabilità contrattuale. Andrea Garnero, economista Ocse, fa notare che il sussidio potrebbe spingere le imprese a offrire formule di part-time ai dipendenti, mantenendo la retribuzione sotto la soglia utile per far scattare l’integrazione del reddito di cittadinanza: «È un rapporto win-win: chi è disoccupato trova lavoro e può continuare a percepire anche il reddito di cittadinanza, mentre le imprese colgono la palla al balzo per ridurre il costo del lavoro - spiega Garnero - E questo potrebbe fare da incentivo alla crescita del part-time involontario, già cresciuto in maniera robusta negli anni della crisi».
Sullo sfondo, nulla esclude che l’intera misura possa incagliarsi sulle controversie che hanno accolto il debutto dei «navigator», i tutor chiamati ad accompagnare i percettori del reddito nella ricerca di impiego. La Regione Toscana ha annunciato un ricorso alla Corte costituzionale contro l’imposizione di una figura che “invade” le competenze delle regioni nella gestioni dei servizi per il lavoro.
Il boomerang del decreto dignitàe l’accetta sulla alternanza
La seconda misura di punta del governo gialloverde, in materia di occupazione giovanile, equivarrebbe al decreto dignità: il
testo che cerca di ridurre la piaga del precariato nel lavoro , anche under 30, fissando alcuni paletti che limitano il ricorso
ai contratti a tempo determinato (come l’obbligo di inserire causali dopo i primi 12 mesi di contratto, un rincaro contributivo
dello 0,5% per ogni rinnovo e un tetto massimo di 24 mesi per i rinnovi di rapporti a termine). L’obiettivo originario era
di scoraggiare l’instabilità lavorativa, favorendo la trasformazione di rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato.
I dati Inps, citati sopra, sembrano dare ragione al governo. Ma basta citare quelli di un’altra fonte istituzionale, l’Istat,
per ottenere un effetto contrario. Secondo l’istituto nazionale di statistica, l’occupazione ha segnato un aumento dei
dipendenti a termine pari a 47mila unità su scala mensile e 257mila unità su scala annua, a fronte di un calo di 35mila dipendenti
a termine tra novembre e dicembre 2018 e di 88mila «tempi indeterminati» nell’arco di 12 mesi. Non è facile comparare le due
fonti, ovviamente, perché i metri utilizzati sono diversi. Ma in ogni caso, come ha già fatto notare il Sole 24 Ore, l’esito provvisorio del decreto sembra più che altro quello di far rallentare i contratti a termine - e non di stimolare
una crescita generale dell’occupazione.
In parallelo, l’esecutivo ha deciso di mettere mano anche all’esperimento dell’alternanza scuola-lavoro, inaugurata dal governo Renzi con la cosiddetta riforma della Buona scuola. Il programma, consistente nel far svolgere un certo numero di ore in azienda agli studenti di licei e istituti tecnico-professionali, è stato dimezzato sia nel monte orario che nei fondi. Il modello duale «all’italiana» aveva mostrato tutti i suoi deficit, dai casi di sfruttamento denunciati dalle associazioni di studenti ai difetti organizzativi, soprattutto nel caso dei licei. Eppure un modello più solido di transizione scuola-lavoro è considerato, nel resto d’Europa, come uno dei fattori più incisivi per ridurre la disoccupazione.
La stessa alternanza sperimentata nel nostro Paese ha garantito, secondo i dati del consorzio di scuole Almadiploma, un incremento del 40,6% delle chance di impiego degli studenti, con una quota del 33% di giovani trattenuti nell’azienda dove hanno svolto il tiroocinio. Il taglio del monte orario, senza una riformulazione del programma, rischia di lasciare intatti i problemi senza potenziare gli effetti positivi del programma. Come ha già detto al Sole 24 Ore Alessandro Rosina, professore di demografia all’Università Cattolica di Milano, il dialogo fra scuola e lavoro andrebbe «rinforzato» come ponte di ingresso principale nell’occupazione. «I dati mostrano che i Paesi che implementano meglio l’alternanza hanno il più basso livello di disoccupazione (in Germania è al 6%, ndr) -gli fa eco Reyneri - Limitarsi a tagliarla è un delitto».
I problemi strutturali, dalla taglia delle imprese alla spesa in R&D
Naturalmente, le radici della «non occupazione» dei giovani italiani sono preesistenti al governo in carica. Fra i problemi
strutturali del Paese criticati dalla Commissione europea a marzo 2018, pochi giorni dopo il voto delle scorse elezioni nazionali,
svettano mismatch (la mancata corrispondenza tra profili cercati e offerti), la taglia piccola e micro delle imprese (incapaci
di offrire impieghi ad alto valore aggiunto) e, in generale, una scarsa propensione del settore privato agli investimenti
in innovazione e ricerca&sviluppo. Nel 2016, la media di finanziamenti nazionali all’R&D viaggiava all’1,3% del Pil, contro
una media Ue del 2%. Anche qui, però, i segnali non sembrano di inversione rispetto al trend degli esecutivi precedenti.
Nella legge di bilancio 2019 si registra una riduzione di circa 1 miliardo sugli investimenti. Emergono misure a favore di startup e la proroga del credito di imposta alla formazione 4.0, ma anche diversi colpi di forbice. Fra i vari tagli ce n’è anche uno a danno delle agevolazioni fiscali per le imprese
che decidono di puntare sull’R&D. L’importo massimo del bonus, consistente in un credito di imposta per chi investe in ricerca,
è stato tagliato da 20 a 10 milioni di euro.
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