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Dossier M5S dal trionfo al flop elettorale in 12 mesi. Che cosa non ha funzionato

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    Dossier | N. 16 articoli 4 marzo 2019, cosa è cambiato a un anno dalle elezioni politiche?

    M5S dal trionfo al flop elettorale in 12 mesi. Che cosa non ha funzionato

    Sono arrivati al Governo con la Lega da assoluti trionfatori, forti del 32,6% dei consensi ottenuti alle elezioni del 4 marzo e di ben 331 seggi conquistati in Parlamento, contro il 17% e i 181 parlamentari del Carroccio. Ma, un anno dopo, i Cinque Stelle appaiono in sofferenza: i risultati delle regionali che si sono susseguiti da allora sono tutti deludenti.

    In Abruzzo lo scorso 10 febbraio ha visto dimezzare i voti rispetto alle politiche (20% contro 40%) mentre l’alleato li raddoppiava. In Sardegna è andata anche peggio: anche nell'Isola, dove il 4 marzo aveva conquistato il 42% dei voti, il Movimento si è piazzato solo terzo, dietro il centrodestra e il centrosinistra, crollando sotto al 9 per cento. Se alle europee lo scenario dovesse ripetersi, decreterebbe il rovesciamento dei rapporti di forza nell'Esecutivo. Con conseguenze imprevedibili.

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    In 12 mesi tutto è cambiato
    Che cosa è avvenuto in dodici mesi? Perché la Lega ha capitalizzato l’esperienza a Palazzo Chigi e il M5S non ci è riuscito? Nelle «riflessioni sul futuro del Movimento 5 Stelle» scritte sul blog dopo ben due giorni di silenzio, all’indomani del tracollo abruzzese, Luigi Di Maio ha analizzato i motivi della difficoltà (storica) dei pentastellati alle amministrative. Riconoscendo «alcuni problemi di fondo», ha stigmatizzato la tendenza all'improvvisazione, ma soprattutto la “chiusura”: «Mi ha colpito il fatto che in alcune regioni in questi anni siamo rimasti nella nostra zona di comfort, evitando di incontrare categorie importanti come ad esempio quelle dell’imprenditoria e del volontariato. È ora di farlo». Con «strategia e rigore».

    Il fallimento della strategia “neocentrista”
    Ma la diagnosi va estesa oltre le difficoltà sui territori. Un anno fa il Movimento si presentava agli italiani con un volto più che rassicurante, quasi moderato, che si è lasciato incarnare proprio da Di Maio, mentre Grillo e Di Battista tenevano viva l’anima barricadera delle origini. È stato il capo politico a demolire, uno per uno, i tanti tabù sui quali il M5S aveva costruito parte della sua fortuna. Prima tessendo legami con le lobby, un tempo odiate, poi incontrando gli investitori e le imprese, infine professando fede di europeismo per incassare la fiducia del presidente della Repubblica. Il 4 marzo è stato il frutto di questa operazione “neocentrista”, grazie alla quale i Cinque Stelle hanno allargato il loro bacino tradizionale trasformandosi in forza pigliatutto, a cominciare dai delusi dal Pd renziano.

    La scelta di Conte
    Il vento in poppa è proseguito anche quando si è scelta la strada dell'alleanza con la Lega, con l’escamotage molto pragmatico del contratto di governo. Nonostante l’incidente del gridare all'impeachment contro Sergio Mattarella, che ha inferto un primo colpo all'asse con il Quirinale e all’abito di moderazione indossato fino a quel momento. Da allora in poi, però, è iniziata la “gara” con il Carroccio, quanto mai insidiosa. È vero che i Cinque Stelle sono riusciti a imporre un loro nome per il premier (Giuseppe Conte era stato indicato da Di Maio come candidato ministro della Pa e poi “promosso” per uscire dall'impasse) e a far traslocare a Palazzo Chigi il loro staff cresciuto alla Casaleggio Associati. Ma già nella ripartizione dei ministeri si intuiva quello che sarebbe successo.

    Al M5S i ministeri più delicati
    Mentre Salvini ha scelto il Viminale e garantito alla Lega gli Affari regionali, l'Agricoltura e la Famiglia - tutti terreni tradizionalmente cari al Carroccio - Di Maio si è caricato del peso di due ministeri difficili, tanto più in tempo di recessione, convinto di poter massimizzare gli effetti del reddito di cittadinanza e del decreto dignità: il Lavoro e lo Sviluppo economico. Ai Cinque Stelle sono andate le Infrastrutture - scelta di cui oggi in molti si pentono, considerata la retromarcia sul Terzo Valico e il pasticcio Tav - così come la Sanità e il Sud, campi minati per la sfida leghista sulle autonomie. Al Governo la Lega ha portato una struttura ben collaudata decisa ad avanzare nel Mezzogiorno, feudo M5S secondo la nuova mappa emersa il 4 marzo, con Salvini lider maximo, Giorgetti “eminenza grigia” e una folta classe dirigente ben radicata sul territorio. Il M5S ha scontato le grandi debolezze della sua, di classe dirigente, e una organizzazione iperverticistica (sull'asse Casaleggio-Di Maio, con Grillo sempre più defilato), a dispetto della sbandierata democrazia diretta basata sulla piattaforma Rousseau. Che ha mostrato più di una crepa, tanto nella partecipazione (limitata a qualche decina di migliaia di iscritti) quanto nell'efficienza tecnologica.

    Moderazione abbandonata
    L'esito è stato scontato, e sbilanciato. Salvini ha insistito da subito sui suoi cavalli di battaglia del pugno duro sull'immigrazione e della sicurezza, a colpi di slogan e di operazioni ad effetto (dal caso Diciotti alla Sea Watch), capaci di oscurare la bandiera bianca con l'Europa sul deficit al 2,04%; Di Maio ha arrancato. Ha incassato il decreto dignità e la legge anticorruzione, ma per il resto è stato costretto da un lato ad appiattirsi sulla linea leghista e dall'altro a risolvere il rompicapo della messa a punto del reddito di cittadinanza, per nulla semplice e dalla resa futura, in termini di consensi, più lenta e incerta rispetto alla “chiusura dei porti” e di quota 100. Abbandonando via via, per inseguire l'alleato, quella patina di moderazione che aveva sostenuto il Movimento prima del 4 marzo, fino ad arrivare al festeggiamento sul balcone per il 2,4% di deficit/Pil poi rinnegato e all'abbraccio con i gilet gialli e all'attacco al “franco coloniale” che ha scatenato la crisi diplomatica con la Francia. Il richiamo alle armi di Alessandro Di Battista per rispolverare l'anima movimentista, provata dalla resa sul Tap, sull'Ilva, sul Terzo Valico e sulle banche, non ha premiato. Anzi. E ora scottano sul tavolo i dossier della Tav e dell'autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

    La riorganizzazione
    È così che si è arrivati al pranzo a tre (Di Maio, Casaleggio e Grillo) con il tentativo di risalire la china partendo da una nuova organizzazione nazionale e locale che sancisce la definitiva trasformazione del Movimento in partito, con un team nazionale articolato per temi, tanto simile a una segreteria, e con referenti regionali. Fino al prossimo superamento del divieto di due mandati, totem del M5S, che sarà cancellato a livello amministrativo garantendo la cumulabilità degli incarichi per i consiglieri comunali. Allargare per condividere le responsabilità e per includere, arginando il crescente dissenso interno, che guarda a Roberto Fico e che sinora non ha dato grande prova di capacità di incidere. Ma anche per battere di più sui temi che distinguono i Cinque Stelle rispetto alla Lega: ambiente, energia, acqua pubblica, nuove tecnologie, quelli su cui si punterà in Europa.

    Leadership Di Maio più debole
    Di Maio si è blindato: «Il capo politico si discuterà tra quattro anni». Ma la sua leadership è stata apertamente messa in discussione dalla senatrice Paola Nugnes e, a taccuini chiusi, viene contestata anche da altri eletti. Si temono emorragie dal gruppo parlamentare, sia verso destra che verso sinistra. Tornano alla mente le parole di Grillo di gennaio 2018, quando chiudeva alle alleanze sostenendo che «un panda non può mangiare carne cruda». Dodici mesi dopo sembra averne mangiata così tanta da fare indigestione. Tornare al cuore di bamboo senza rinunciare al Governo è una sfida tutta in salita.

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