Il reddito di cittadinanza? Così com’è non va bene, va cambiato, va piuttosto rafforzato il reddito di inclusione introdotto dal governo Gentiloni. L’articolo 18, abolito dal Jobs act per i neoassunti, va reintrodotto come chiede la sinistra del Pd? No, nessuna modifica sull’articolo 18. E la bocciatura delle scelte di politica economica del governo giallo-verde è unanime: mancano del tutto politiche volte alla crescita e alla creazione di lavoro, gli investimenti sono bloccati, il debito pubblico rischia di essere ben presto fuori controllo.
Chi si aspettava dal dibattito televisivo andato in onda su SkyTg24 tra i 3 candidati alle primarie del Pd che si terranno domenica 3 marzo divisioni nette sul programma economico è rimasto senz’altro deluso. Il favorito Nicola Zingaretti e gli sfidanti Maurizio Martina e Roberto Giachetti hanno dato risposte convergenti su tutti i temi di attualità. Sull’economia come sull’immigrazione. Dando l’inedita immagine di un partito omogeneo almeno per quanto riguarda il programma. E questo non deve stupire, perché in questo lungo congresso del Pd - iniziato di fatto dopo la sconfitta alle politiche del 2018 - il vero oggetto del contendere è squisitamente politico.
Da una parte la continuità o la discontinuità con l’ingombrante ex leader e premier, vero fantasma di queste primarie: su questo punto è il solo Roberto Giachetti a difendere a spada tratta Matteo Renzi e a proporre una perfetta continuità. Da parte sua Zingaretti, che negli anni del potere renziano era alla Regione Lazio e fuori dalla dinamiche politiche interne, ha buon gioco a rivendicare la discontinuità. Mentre Martina si posiziona nel mezzo invocando l’unità del partito.
D’altra parte Zingaretti ha abilmente respinto le accuse di voler riaprire le porte ai fuoriusciti bersaniani di Mdp-Leu e di ricercare per il futuro l’alleanza con il M5s. «Mai con i 5 stelle, e mai con Fi» è la posizione di tutti e tre i candidati alle primarie.
Tuttavia proprio sul tema delle alleanze è emersa la vera divisione: Giachetti e Martina rivendicano ancora oggi, con percentuali alle ultime politiche sotto il 20 per cento, la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria. Ossia per i due candidati appoggiati dal mondo renziano il Pd non deve rinunciare all’ambizione di rappresentare tutto il campo del centrosinistra né perdersi di conseguenza all’inseguimento di piccoli partiti per costruire una riedizione della sfortunata Unione di Prodi. Mentre Zingaretti immagina una coalizione larga, sul modello di quelle formatesi attorno alle liste civiche alle prove regionali di Abruzzo e Sardegna, nella convinzione che il Pd da solo non basta più.
È una convinzione condivisa da molti dirigenti di peso, a partire dall’ex premier Paolo Gentiloni. Ma sia Zingaretti sia Gentiloni sanno che il “campo largo” è ancora tutto da costruire e che i possibili alleati ora in campo, da Mdp-Leu a Più Europa, non bastano certo a ricostruire una alternativa di governo. «L’alleanza dobbiamo farla con la gente», dice non a caso il governatore del Lazio.
Rinunciare alla vocazione maggioritaria per costruire una larga alleanza di centrosinistra comporta anche la cancellazione della coincidenza dei ruoli di segretario del partito e candidato premier prevista dallo statuto del Pd. Una rivoluzione copernicana per un partito nato e cresciuto in epoca di maggioritario. Ma una presa d’atto della realtà in epoca di proporzionale per Zingaretti e i suoi sostenitori.
Da qui partirà la costruzione della leadership di Zingaretti a partire dal 3 marzo, se verranno confermati i pronostici sulle primarie. La sua missione sarà quella di allargare e di unire un’opposizione al governo giallo-verde che nel Paese c’è, come dimostra il discreto risultato del centrosinistra alle regionali in Abruzzo e Sardegna. E non c’è dubbio che nel dibattito televisivo Zingaretti ha dato prova di quelle qualità di “padre” riconosciutegli dal vecchio “padre” Prodi: le sue dichiarazioni sono state tutte all’insegna dell’inclusione, rigettando nel contempo l’immagine spesso caricaturale che di lui rimandano gli avversari interni sul tema del rapporto con il M5s.
Ma la costruzione di questa leadership che parte già senza l’ambizione di farsi premiership può bastare a contrastare un leader forte e populista come Matteo Salvini? Intanto la segreteria di Zingaretti avrà l’arduo compito di tenere in piedi la “baracca” allargando il più possibile il campo. E non è un compito da poco.
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