La vittoria della Lega di Matteo Salvini, che supera di slancio il 30% arrivando al 34% quando alle politiche del 4 marzo scorso era al 17%, era data largamente per acquisita nei sondaggi degli ultimi mesi nonché confermata dalle elezioni regionali che si sono tenute durante questo primo anno di governo giallo-verde.
Affatto scontato era invece che il M5s scivolasse in poco più di un anno da prim0 partito con oltre il 32% a terzo partito, addirittura al 17%. Sorpassato, e questa è forse la vera novità di queste europee 2019, anche da un Pd tornato a crescere fino al 22,7% dopo il traumatico 18 e rotti del 4 marzo scorso.
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Ribaltone in vetta
È la prima volta nella storia repubblicana che due partiti al governo invertono totalmente il loro peso elettorale. E oltre
diciassette punti di stacco tra la Lega e il M5s sono molti. Troppi per non avere conseguenze sulla tenuta dell’esecutivo
presieduto da Giuseppe Conte. Anche dando credito alle rassicurazioni di Salvini di non puntare alla premiership o a qualche
ministero in più, tutto il peso della vittoria leghista sarà nell’immediato trasferito sull’agenda: dalla Tav all’autonomia
delle Regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), dalla flat tax al decreto sicurezza bis fino al decreto crescita
e allo sblocca cantieri, Salvini passerà all’incasso imponendo la sua linea su tutti i dossier bloccati per le divergenze
con l’alleato Luigi Di Maio. E potrà farlo perché a differenza del M5s la Lega ha un’alternativa, anche se non troppo gradita
a Salvini che vorrebbe superare del tutto l’era Berlusconi: tornare al voto anticipato in coalizione con Forza Italia (al
9%) e Fratelli d’Italia (al 6,5%) e vincere le elezioni con un risultato che sfiorerebbe la maggioranza assoluta.
Salvini vuole evitare l’effetto Renzi
Insomma, o il “capitano” riuscirà a portare a casa qualche risultato concreto - al di là della narrazione già in parte esaurita
sui migranti - che rassicuri la base tradizionale della Lega al Nord o la forza delle cose spingerà verso elezioni anticipate.
Anche perché nell’entourage del leader leghista, a cominciare dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo
Giorgetti, temono l’effetto Renzi: ossia, dopo il raggiungimento della vetta, l’inevitabile declino. L’opzione di incassare
prima che sia troppo tardi dal 27 maggio sarà più forte.
Di Maio all’angolo
Il M5s di contro rischia di implodere per effetto di una crisi evidente, che inevitabilmente è anche una crisi di leadership.
Di Maio esce dalla notte elettorale in seria difficoltà, se non in bilico. Ma proprio la debolezza dei pentastellati e la
prospettiva di un ricambio di classe dirigente dettata dalla regole del secondo mandato ribadita in questi giorni da Davide
Casaleggio rende l’opzione voto improponibile al momento per il M5s. Che rischia così di ridursi a portatore d’acqua di un
Salvini in questa fase molto forte.
Sul fronte dell’opposizione va registrato un Pd che rialza la testa e che, assieme alla lista Più Europa-Italia in comune che supera il 3%, ridiventa attrattivo e può sperare - complice la crisi del M5s - nel potenziale ritorno del tradizionale bipolarismo centrodestra-centrosinistra. Certo, c’è il problema delle alleanze. E della rappresentanza di un centro moderato, come ha ricordato nei giorni scorsi l’ex leader Matteo Renzi, che in questo Paese sembra scomparso. Ma ripartire dal oltre il 22%e dal sorpasso sul M5s è già tanto per un Pd che solo un anno fa sembrava destinato ad una lenta estinzione. I democratici sono tornati attori del quadro politico. Ed è un risultato che rafforza l’unità del campo democratico: dal 27 maggio l’opzione di una scissione renziana è più lontana.
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