È nei fatti che il Pil non sia cresciuto abbastanza. E, regole Ue alla mano, ora può essere addotto come fattore rilevante per chiedere clemenza alla Ue nella valutazione del quadro macroeconomico. Ma quel dato, se guardato con altri occhiali, oggi può addirittura far sorridere. Perché è come se rispondessimo all’Europa che, poiché il bluff sulle aspettative gonfiate di crescita non ha funzionato, ora bisogna tenerne conto.
Nel settembre del 2018 il Governo giallo-verde mette a punto la Nota di aggiornamento al Def del governo Gentiloni che già si era rivelato troppo ottimista sul Pil. Giovanni Tria scrive: «La stima di crescita del Pil per quest’anno scende dall’1,5 all’1,2 per cento, e la previsione tendenziale per il 2019 viene ridotta dall’1,4 allo 0,9 per cento».
La congiuntura già peggiora e i centri studi cominciano a segnalare i rischi. L’Ufficio parlamentare di bilancio fa il primo strappo e non valida le previsioni: troppo ottimismo sul Pil. Banca d’Italia per voce di Federico Signorini avverte: «L’aumento dei trasferimenti correnti, quali quelli connessi con la spesa sociale, così come gli sgravi fiscali, tendono ad avere effetti congiunturali modesti e graduali nel tempo; stimiamo che il moltiplicatore del reddito associato a questi interventi sia contenuto... E quindi, la crescita del Pil nel 2019 si manterrà persino sotto l’1%».
Siamo a ottobre. Di lì a un paio di mesi arriva la manovra del 2,4% di deficit (poi corretto al 2,04% dopo il braccio di ferro con Bruxelles). E qui il Governo del cambiamento taglia la stima del 2019 dello 0,2 all’1%. Ma tutto è affidato al potere taumaturgico del reddito di cittadinanza e di un boom di investimenti che già allora è intuibile non ci saranno. Le previsioni dei centri studi continuano a vedere nero. Sempre in dicembre la Commissione Ue invia la prima lettera in cui segnala gli scostamenti dal sentiero di normalizzazione dei conti. In quell’occasione i commissari europei già segnalano un eccesso di ottimismo sulla crescita da parte dell’Italia.
L’Italia insiste: gli investimenti (soprattutto pubblici e delle aziende partecipate convocate con enfasi mediatica a Palazzo Chigi) e la spinta alla domanda derivante dalla lotta alla povertà rendono credibile il quadro macroeconomico. Quello dell’«anno bellissimo», per intenderci.
Il Governo giallo-verde prosegue la sua marcia verso la sfida alla Ue sui provvedimenti simbolo, ma cominciano i segnali di ravvedimento nelle previsioni.
Il Def dell’aprile di quest’anno continua a mostrare ottimismo pur nella consapevolezza di uno scenario ormai cambiato radicalmente. E ormai siamo agli zerovirgola: colpa della congiuntura internazionale, ma anche delle misure che non hanno avuto gli effetti sperati sul Pil. Dice il Def: «La previsione di crescita del Pil nello scenario programmatico, pur influenzata dai vincoli di bilancio, è superiore a quella dello scenario tendenziale ad eccezione nell’anno finale, attestandosi allo 0,2 per cento per il 2019 per poi aumentare allo 0,8 per cento nei tre anni successivi (rispetto a uno scenario tendenziale che sconta tassi di crescita reale dello 0,6 per cento nel 2020, 0,7 per cento nel 2021 e 0,9 per cento nel 2022)». Frase anodina per dire che la stima reale è dello 0,1% e quella del tasso programmato è di un decimale in più.
Il bluff ormai è scoperto e anche il Governo non lo nega più. L’Upb stavolta prende atto del cambio di rotta sulle previsioni, ma la Banca d’Italia guarda anche oltre e mette in guardia dallo spread e sottolinea come servano «coperture notevoli per centrare il target del Def e l’elevato livello dello spread inciderà negativamente, e in misura crescente, sulla crescita negli anni successivi al 2019. In particolare, un aumento permanente dello spread pari a 100 punti base, come quello attuale, riduce la crescita di «0,1 punti percentuali dopo un anno e di 0,7 dopo tre».
Sintesi finale: la manovra di bilancio è risultata antitetica al quadro congiunturale in brusca flessione e, nonostante si sia passati dalla baldanza di un +1,5 al mestissimo 0,1%, la presa d’atto è tardiva.
Nel mezzo non ci sono state correzioni di rotta. Ci sono stati solo ripetuti allarmi sull’ottimismo eccessivo verso la crescita, perno della cosiddetta politica del denominatore che puntava tutto sul Pil per abbattere il rapporto debito/Pil e deficit/Pil. Oggi il Pil è a zero per l’Ocse e lo stesso 0,3 in un primo tempo indicato da un Istat generoso è stato corretto a +0,1 con tendenza a -0,1 dato che la crescita acquisita quest’anno è nulla, vale a dire zero ( e così anche l’Istat si è allineato agli altri previsori). Ora l’Europa ci mette di fronte alle contraddizioni di un anno di misure ad alta spesa e a bassissimo impatto sullo sviluppo. Sembra bizzarro che oggi proprio quel bluff sul Pil possa diventare il nostro miglior alibi.
Questo articolo è stato aggiornato venerdì 31 maggio 2019
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