Nel 2050 la popolazione mondiale arriverà a 9 miliardi, dai 7,7 miliardi attuali, e nel 2100 toccherà gli 11,2 miliardi, per poi cominciare a declinare, secondo le previsioni delle Nazioni Unite. Questa è l'opionione dominante, diffusa e stampata in tutte le strategie di lungo periodo di chi si preoccupa di programmare il fabbisogno alimentare, energetico e sanitario dell'umanità. Ma sarà poi vero? C’è un'ampio movimento di demografi che non è d’accordo con questi numeri.
Wolfgang Lutz e i suoi colleghi del prestigioso International Institute for Applied Systems Analysis di Vienna sono stati i primi a contestare le proiezioni dell’Onu, seguiti dall'accademico norvegese Joergen Randers, lo stesso che negli anni Settanta aveva contribuito a lanciare l’allarme sulla bomba demografica pronta a scoppiare. In base ai loro studi, la popolazione umana si stabilizzerà a 8 miliardi attorno al 2040 e poi inizierà a calare. Un rapporto di Deutsche Bank, invece, stima un picco a 8,7 miliardi nel 2055 e poi un calo a 8 miliardi entro la fine del secolo. Diversi altri studi collocano il picco fra 8 e 9 miliardi, mai oltre i 9, e sempre in questo secolo, ben prima del 2100.
Il motivo di fondo è il rapido declino del tasso di fecondità delle donne, di cui l'Onu, secondo loro, tiene conto troppo poco. Il nuovo consenso che sta emergendo fra i demografi dissidenti è segnalato anche in un libro-inchiesta del giornalista canadese John Ibbitson e dello scienziato Darrell Bricker, “Empty Planet”, uscito il mese scorso in Canada per Signal.
Dal 1970, si è verificato un netto declino globale della fecondità femminile. Negli Stati Uniti, in tutta Europa e negli altri Paesi industrializzati la fecondità è attualmente inferiore al tasso di rimpiazzo di 2,1 bambini per donna. Molte popolazioni, compresa quella italiana (che ha un tasso di fecondità di 1,32 figli per donna, fra i più bassi del mondo), rischierebbero addirittura di scomparire, sul lungo periodo, se non fosse per l'immigrazione. Già una ventina di Paesi del mondo si stanno riducendo ogni anno, dalla Polonia a Cuba al Giappone, che nel 2018 ha perso quasi 450.000 abitanti.
La vera grande notizia, tuttavia, viene dai Paesi in via di sviluppo. È qui che si segnalano i crolli più marcati del tasso di fecondità. La Cina ha un tasso di fecondità di 1,6 figli per donna, equivalente a quello del Brasile e dell’Unione Europea. L’India, che presto supererà la Cina come nazione più popolosa al mondo, è attorno al tasso di rimpiazzo del 2,1, in calo.
Lutz sostiene che i demografi dell’Onu non tengono conto di due variabili, il rapido inurbamento delle popolazioni rurali nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, e l'istruzione delle bambine. Sono due fenomeni correlati fra loro, che stanno cambiando radicalmente le curve di crescita della popolazione mondiale. Oggi, per la prima volta nella storia umana, il 55% dell’umanità vive in città. Nel 2050 saremo a due terzi. Spostandosi in città, il tasso di fecondità delle donne si riduce drasticamente, per molte ragioni. Avere un bambino non è più visto come una risorsa (un altro paio di braccia per lavorare nei campi), ma come un peso (un’altra bocca da sfamare). Di più: una donna che si trasferisce in una città ha maggiore accesso ai media, all'istruzione e ad altre donne già emancipate, quindi esige una maggiore autonomia. Calano le pressioni religiose e familiari per fondare una famiglia. E quando le donne sono in grado di esercitare un controllo sul proprio corpo, di solito decidono di avere meno figli. «Il cervello è l’organo riproduttivo più importante - afferma Lutz -. Una volta che una donna riesce ad avere un’istruzione e una carriera, è destinata ad avere una famiglia più piccola. Non c’è ritorno».
L’Africa rimane la culla della sovrappopolazione mondiale, con tassi di fecondità ben al di sopra del tasso di rimpiazzo. In base alle previsioni dell’Onu la popolazione africana, che ha superato il miliardo di persone solo nel 2009, dovrebbe quadruplicare entro il 2100, arrivando a 4,4 miliardi. È lì che la bomba demografica, se davvero esiste, si prepara a scoppiare. La storia africana di questo secolo, se l’Onu ha ragione, sarà molto deprimente. Il continente rimarrà in gran parte povero e rurale, le donne saranno costrette ad avere un figlio dopo l’altro, riempiendo proprio i territori meno in grado di sostenerli.
Ma i demografi dissidenti non la vedono così nera. Parti dell'Africa hanno fatto grandi progressi nell'istruzione delle donne. Il Kenya è un esempio e non è l’unico. Qui solo circa un quarto della popolazione guadagna uno stipendio regolare e metà della popolazione va a letto affamata più di una volta alla settimana. D’altra parte, però, l’anno scorso era quasi equivalente il numero di ragazze e ragazzi che hanno partecipato agli esami di diploma della scuola primaria, all’età di 14 anni, dopo otto anni d'istruzione formale. In media, le ragazze hanno ottenuto voti migliori. Negli ultimi tre decenni, inoltre, gli inurbati sono più che raddoppiati, arrivando al 32%. Man mano che le donne si urbanizzano, il tasso di fecondità del Kenya crolla: da 8 nel 1960 a 3,4 di oggi, secondo uno studio sui tassi di fecondità globali pubblicato lo scorso novembre su Lancet.
Altrove le cifre sono meno incoraggianti: Niger 7, Mali 6, Nigeria 5. Ma anche lì, i cambiamenti si sentono: il tasso di fecondità della Nigeria era quasi a 7 nel 1980. In Ruanda, le donne che siedono in parlamento sono più degli uomini: il 61%. E il tasso di fecondità è crollato da 8 a 4 negli ultimi 30 anni. Nell’Africa subsahariana l’inurbamento è il più veloce del mondo, con un aumento annuo della popolazione urbana del 4%, il doppio della media globale. Se l’istruzione e l’emancipazione delle donne procederà a questo ritmo, potrebbe portare a un rapido calo della fecondità. I demografi dissidenti ne sono fermamente convinti.
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