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London insider: indirizzi (chic) per lo shopping

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London insider: indirizzi (chic) per lo shopping

Lo skyline di Londra da Waterloo Bridge (foto Alamy/Milestone Media)
Lo skyline di Londra da Waterloo Bridge (foto Alamy/Milestone Media)

Comprare "verde" a Londra è quasi come attuare un programma di governo. Sarà che nella campagna "This is Great Britain" del premier David Cameron (con "great" a lettere cubitali) l'impegno "green" è accanto a quello per il sapere, l'impresa, la musica e l'innovazione (che poi solo il 2% dei britannici ritenga questo "the greenest government ever" è un'altra faccenda). Sarà che qui si rispetta il verde dai tempi di Capability Brown, architetto supremo dei famosi giardini all'inglese, così perfettamente all'opposto di quelli "inquadrati", all'italiana (il suo epitaffio, nel 1763, supponeva che il suo lavoro, così eccelso, non sarebbe mai stato notato, tanto era integrato con l'opera di Dio). Sarà che un numero crescente di star da copertina, inglesi e non, sbandiera abiti e accessori green, persino sulla passerella degli Oscar. O sarà merito dell'operazione di lobbying mondiale lanciata da Livia Firth Giuggioli, moglie di Colin e proprietaria con il fratello Nicola di una boutique-con-sito-e-newsletter di Chiswick, Eco Age, ormai crocevia dello shopping chic della capitale (vai al sito).

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Insomma, fare shopping a Londra senza almeno uno dei tanti sensi di colpa che ci assalgono ultimamente quando mettiamo mano al portafoglio per acquisti non necessarissimi è piacevole. Anche perché rispetto agli Anni 80, quando abitavo a Londra e le amiche si stupivano della mia mania di trascinarle al mercatino bio di Chelsea, le opportunità sono centuplicate. I mercatini di frutta, verdura, latticini a chilometro zero che costellano la città rendono facile nutrirsi bio anche in versione street food, con un sacchetto di strepitose pere del Kent a pochi penny. Per sapere dove e quando, c'è lfm.org.uk, sito dei London Farmers' Markets. Le bancarelle sono aperte di solito nel weekend, per facilitare acquisti rilassati e due chiacchiere. Le signore indaffarate si trovano invece per un piatto di "simple, authentic food" nei ristoranti Saf. Uno è su Curtain Rd, Shoreditch, il quartiere del vintage, moda che più sostenibile non si può, l'altro nel Whole Foods Market di Kensington (vai al sito), oppure da VitaO, su Wardour Street o Oxford Street, che offre anche alternative crudiste e senza glutine e dove bazzica la sacerdotessa della moda green Stella McCartney (vai al sito). Anche al di là degli stilisti coinvolti nel progetto Esthetica (info@esthetica.com) promosso dal British Fashion Council con la regia italiana di Orsola de Castro, l'offerta di moda sostenibile a Londra è così ampia che il rischio è non saper scegliere. O capire. Mi insospettisco sempre davanti a troppi capi in cotone organic: primo perché il cotone, anche al netto di pesticidi, è quanto di meno organic ci sia per l'impatto ambientale. Sorta di Attila vegetale, lascia la terra esausta. Secondo perché la produzione di cotone bio mondiale, al 2011, è sotto l'1% del totale. Morale: leggere bene le etichette.

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Anche il fair trade, commercio di beni non provenienti da dittature o Paesi dove si tollera il lavoro minorile, è cosa buona e giusta. Se, però, l'impegno nel fair trade descritto sulle etichette contribuisce anche ad aiutare progetti di sviluppo o a finanziare aree depresse è anche meglio. Dovessi segnalare un'unica boutique di moda sostenibile sceglierei, insieme alla stessa Livia Firth ,che la adora, 69b, su Broadway Market, Hackney, non proprio dove gli italiani in vacanza vanno a dormire. In realtà è un quartiere "mediterraneo" nell'approccio, direbbero gli inglesi: anche se non si parla il "queen's english" qualcuno da sempre una mano. Il direttore moda 69b di Merryn Leslie, firma di i-D e di Exit, sa che per creare un'offerta sostenibile, ma non monocorde, bisogna mescolare e accogliere. Fra i loro brand prediligo Joanna Cave per i gioielli, Monkee Genes per i jeans (e il nome strepitoso), e Goodone per i bomber di seta riciclata (o up-cycled); più banali gli abiti di Henrietta Ludgate, che ha pure una boutique-cum-studio a Bayswater, al Whiteleys Shopping Centre, e un po' troppo viste le borse di linguette di lattine riciclate di Bottletop: condivido il progetto benefico a Salvador de Bahia, ma sarebbe ora di passare ad altri materiali (vai al sito). Come Orsola de Castro, appunto, stilista con boutique a Portobello che, in un mix creativo italo-britannico, sta affermando ovunque la linea From Somewhere. Gli abiti sono tutti diversi o quasi perché derivano dall'upcycling di produzioni tessili d'altissima qualità. L'allure è di alta moda, e la produzione è a cura della cooperativa Rinascere di Vicenza, che offre una chance a chi è uscito da tossicodipendenze o da problemi mentali (vai al sito). Orsola sta avendo tale successo che Tesco, colosso dell'alimentare e dello shopping low cost, l'ha voluta per il progetto From Somewhere to F&F (Florence and Fred è il brand di moda cheap Tesco), lo stesso per cui Marks&Spencer sta lanciando, oltre alle etichette,
abiti in filati derivati dal Pet delle bottiglie. Come Valentino quando ha vestito Livia Firth agli Oscar.

4 marzo 2013

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