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Il ruolo delle Pmi nel contrasto al riscaldamento globale

Secondo l’Ocse sono responsabili di oltre il 60% delle emissioni industriali di gas climalteranti. La sfida è quella di darsi obiettivi quantificabili e ragionare in ottica di sistema

Rappresentano la stragrande maggioranza delle imprese nel mondo e anche loro devono fare la propria parte per contrastare il cambiamento climatico. Secondo il report “SMEs: Key Drivers of Green and Inclusive Growth”, pubblicato dall’Ocse nel 2018, le piccole e medie imprese contribuiscono ad una quota compresa tra il 60 ed il 70% delle emissioni climalteranti di fonte industriale in Europa.

Lo stesso documento individua tre modalità attraverso le quali le Pmi posso orientare la loro attività nella direzione della sostenibilità. La prima è quella di essere eco-innovatrici, ovvero quella di sviluppare nuovi prodotti, processi, strategie di marketing e organizzative o di modificare profondamente quelli esistenti in modo da ridurre il loro impatto ambientale. La strada della re-ingegnerizzazione dei processi e dei prodotti consentirebbe alle piccole e medie imprese di procedere verso la vera circular economy.

La seconda riguarda gli imprenditori, chiamati a trasformarsi in eco-imprenditori. Questo significa che vedono la sostenibilità come uno degli obiettivi della loro attività imprenditoriale. Infine ci sono gli eco-adopters, ovvero soggetti per cui la sostenibilità consiste nella mera applicazione della legislazione ambientale.

Ma è possibile misurare, e allo stesso tempo in qualche modo incentivare, la svolta green da parte delle piccole e medie imprese? Esistono diverse realtà che consentono di farlo, come i Science Based Targets, nati per le grandi industrie ma ora diretti anche alle Pmi, o Sme Climate Hub, dedicato invece esclusivamente alle realtà di dimensioni minori.

Il funzionamento di queste due piattaforme è simile. Le imprese sono innanzitutto chiamate a individuare un obiettivo di sostenibilità, misurato in termini di riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Entrambe le realtà forniscono una consulenza per intervenire sui processi aziendali con l’obiettivo di raggiungere questo obiettivo. Obiettivo che le aziende sono chiamate a dichiarare pubblicamente, così che anche fornitori e clienti sappiano dell’impegno ambientale assunto. Un impegno che potrebbe attirare nuovi clienti interessati a collaborare con realtà che hanno fatto della sostenibilità una parte integrante della loro ragione sociale.

Quanto sia cruciale una svolta sostenibile lo si vede anche dall’importanza che alla transizione ecologica viene dedicata all’interno del Piano nazionale di ripartenza e resilienza, il documento che definisce come saranno utilizzati i 191 miliardi legati al programma di ripartenza dopo la pandemia definito Next Generation EU. Tra le misure rivolte alle imprese, importante segnalare i 2 miliardi che vengono destinati all’utilizzo dell’idrogeno in settori hard-to-abate. Ovvero settori caratterizzati da un’alta intensità energetica, ma privi di opzioni di elettrificazione scalabili. Più nello specifico, si tratta della chimica, dell’acciaio, del cemento, del vetro e della carta. Nell’acciaio, ad esempio, l’impiego di idrogeno verde, prodotto cioè attraverso l’elettrolisi dell’acqua, può abbattere le emissioni di gas climalteranti fino al 90%.

Una misura, questa, che sarà accompagnata anche da modifiche normative, dall’introduzione di specifiche tecniche sulla produzione e il trasporto alla semplificazione amministrativa per la realizzazione di piccoli impianti per la produzione di idrogeno verde, settore quest’ultimo che sarà sostenuto anche attraverso appositi incentivi di natura fiscale.

Tutte misure che concorrono all’obiettivo fissato dal Green New Deal europeo di tagliare del 55% le emissioni entro il 2030 e di arrivare alla neutralità entro il 2050. E che impegneranno gli imprenditori a ragionare in ottica di sistema, ponendosi cioè non solo il problema dell’impatto ambientale della loro attività, ma di quello di tutta la catena del valore.

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