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RAPPORTO PAESE | Indonesia

L’instabilità frena le riforme

Al presidente Widodo manca una chiara maggioranza in Parlamento

Il presidente Joko Widodo ha bisogno di stabilità politica e di smussare le tensioni con il Parlamento se vuole raggiungere l’obiettivo di portare il tasso di crescita dell’economia al 7% entro il 2019. Oltre a pianificare un massiccio aumento della spesa pubblica in infrastrutture, il Governo sta cercando di aprire il Paese ai capitali esteri, dei quali ha bisogno per compensare la parziale impossibilità di mobilitare risorse interne, un riflesso della scarsa disponibilità di capitale in una nazione con un reddito medio di 4mila dollari l’anno.

Jokowi (come viene chiamato in patria) si è insediato nell’ottobre 2014 dopo che le elezioni più combattute nella storia del Paese lo hanno visto sconfiggere Parabowo Subianto, un ex generale dell’era Suharto. Il sistema elettorale indonesiano ha però consentito alla coalizione di partiti che sosteneva il suo avversario di conquistare la maggioranza dei seggi in Parlamento. Il partito di Jokowi, invece, ha ottenuto solo 105 dei 560 seggi, costringendo il presidente a cercare difficili coalizioni. Jokowi ha così incontrato grandi difficoltà nel far procedere l’agenda di Governo, accentuate dalla sua inesperienza e dalla mancanza di legami profondi con i maggiori partiti. Prima di diventare presidente, Jokowi, un ex imprenditore che non appartiene alle tradizionali élite familiari, militari, economiche e religiose del Paese, è stato governatore di Jakarata e sindaco di Solo.

La paralisi politica è fotografata dall’attività legislativa: in tutto il 2015, il Parlamento ha approvato solo tre leggi. Con il passare dei mesi, tuttavia, Jokowi è riuscito a conquistare il sostegno dei partiti di opposizione, compreso il principale, Golkar, assicurandosi così la collaborazione del Parlamento.

Le prime mosse della sua amministrazione hanno sorpreso negativamente gli investitori: il Governo ha reso più difficile ottenere permessi di lavoro per i professionisti stranieri; ha imposto l’obbligo di utilizzare la rupiah per tutte le transazioni eseguite in Indonesia, imponendo così alle multinazionali di pagare il proprio staff in valuta locale; ha imposto l’obbligo di utilizzare lettere di credito per tutte le operazioni di import-export (un sovraccarico di burocrazia per le società estere); ha incluso una serie di settori (come telecomunicazioni, agricoltura, petrolio, gas, energia elettrica) nella negative list, l’elenco dei settori vietati o fortemente ristretti agli investimenti stranieri, pur avendo poi liberalizzato altri comparti.

Queste misure sono state poi seguite da una serie di pacchetti di liberalizzazioni per facilitare gli investimenti esteri e ridurre il peso della burocrazia.
Dopo i decenni di autoritarismo del regime di Suharto, conclusosi con le sue dimissioni nel maggio del 1998, l’Indonesia ha intrapreso un cammino di democratizzazione e riforme. Le prime elezioni libere e corrette si sono tenute nel 1999.

Dal 2004 il presidente viene eletto direttamente dal popolo, dando all’assetto istituzionale una conformazione più marcatamente presidenziale, sul modello statunitense, per cui il capo dello Stato è capo dell’Esecutivo e nomina il Governo. Il presidente viene eletto in ticket con il vice-presidente. La coppia deve essere candidata da un partito o da una colazione che partecipa alle elezioni parlamentari, che si tengono tre mesi prima delle presidenziali. Non sono ammessi candidati indipendenti. Questo sistema di voto svantaggia candidati popolari, ma non sostenuti da grandi partiti e coalizioni.
Il sistema politico è molto frammentato e spinge all’aggregazione di coalizioni per formare maggioranze all’interno del Parlamento eletto con metodo proporzionale.

Il Parlamento ha il potere di bloccare le proposte del presidente, che quindi deve costruirsi una solida maggioranza per sostenere la propria agenda. Compito non semplice se, come può facilmente accadere, la coalizione che appoggia il presidente non ha anche il controllo del Parlamento. A complicare ancora di più le cose c’è il fatto che il sistema politico è attraversato da correnti trasversali ai partiti. Il presidente, a sua volta, sebbene non abbia un potere di veto diretto sulle leggi approvate dal Parlamento, può però ritardarle e perfino bloccarle, anche se hanno il sostegno della maggioranza. Il potere legislativo non è quindi chiaramente suddiviso tra Parlamento ed Esecutivo. Ciascuna delle due branche dello Stato può bloccare le leggi che non gradisce. Questa equiparazione costringe così i due apparati dello Stato a un fitto lavoro di compromesso a porte chiuse.

Il lavoro parlamentare procede per consenso e non per deliberazioni a maggioranza ed è caratterizzato dalla ricerca estrema del compromesso, fino ad arrivare a soluzioni che possano essere accettate da tutte le parti. Un meccanismo che rende estremamente lunga e laboriosa la formazione delle leggi e apre ampi margini alla corruzione e al clientelismo, rendendo tutto il processo ben poco trasparente e intellegibile per l’opinione pubblica.

Al fine di promuovere l’unitarietà di uno Stato diviso in una miriade di isole, il sistema elettorale vieta i partiti regionali o etnici, consentendo la partecipazione al voto ai soli partiti con presenza estesa in gran parte del territorio nazionale.
L’apparato giudiziario non gode di buona fama ed è spesso accusato di non essere indipendente dal potere politico ed esposto a fenomeni di corruzione. Fa eccezione la Corte costituzionale, però spesso bersagliata dalle forze politiche. L’istituzione più rispettata dai cittadini per la sua indipendenza è la Commissione contro la corruzione, che tra il 2004 e il 2014 ha condannato più di 100 funzionari pubblici (compresi alcuni ministri), una ventina di deputati e più di 100 amministratori e politici locali.

Terrorismo
Dopo aver smantellato le organizzazioni di ispirazione islamista responsabili di sanguinosi attentati all’inizio degli anni 2000, l’Indonesia si è di nuovo scoperta esposta al rischio terrorismo con l’attentato di Jakarta di metà gennaio, rivendicato dall’Isis. Si ritiene ci siano circa 400 indonesiani combattenti nelle fila del Califfato in Iraq e Siria. Il gruppo militante oggi più pericoloso nel Paese è Mujihideen Indonesia Timur (Mit), nato da Jemaah Islamayah (Ji), gruppo sponsorizzato da al-Qaida e fondato da veterani di ritorno dalla guerra in Afghanistan negli anni 80, poi dissolto dall’offensiva delle forze di sicurezza. Il Mit è guidato dal nemico pubblico numero uno, Santoso, che si è affiliato all’Isis nel 2014. Da tempo le forze di sicurezza gli danno la caccia nella roccaforte di Central Sulawesi, nella foresta equatoriale.

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