Singapore ha compiuto 50 anni il 9 agosto del 2015: mezzo secolo di miracoli economici, realizzati con una miscela unica di intervento pubblico, libero mercato e paternalismo confuciano, e sotto la guida ininterrotta del People's action party (Pap). Tra gli Stati più ricchi del mondo, è l’unico a non aver mai cambiato partito di Governo. Nelle elezioni di settembre, il Pap ha ottenuto il 70% dei voti, in crescita rispetto al voto del 2011, quando si era “fermato” al 60%, registrando il peggior risultato della sua storia. I suoi attuali leader devono però andare oltre l’eredità del fondatore della Città-Stato, l’idolatrato Lee Kuan Yew, morto a marzo del 2015.
In assenza di un’opposizione forte, il ruolo del Parlamento si limita sostanzialmente alla ratifica delle decisioni prese dalla leadership del Pap, che ha fatto della crescita la propria bussola, tanto che i ministri del Governo percepiscono bonus basati sull’andamento del Pil, e ha aperto l’economia agli investimenti esteri attraendo tutte le più importanti multinazionali mondiali. Con il passaggio di Hong Kong alla Cina, Singapore si propone come alternativa nel ruolo di hub finanziario per tutta l’Asia.
Negli ultimi anni sono stati varati programmi di sostegno della popolazione anziana, della classe media e delle piccole e medie imprese. Come risultato, lo Stato gioca ora un ruolo più attivo e redistributivo. Il Governo ha anche però sposato politiche più nazionalistiche e sta cercando faticosamente di introdurre un nuovo modello di crescita, meno dipendente dai lavoratori stranieri. Un terzo dei residenti ha cittadinanza straniera e viene guardato con sempre minor simpatia dalla popolazione nativa: quelli ricchi sono accusati di aver fatto salire il costo delle case e della vita in generale, quelli poveri sono ritenuti responsabili di abbassare il livello dei salari. Così, il Pap ha alzato le retribuzioni minime per alcune categorie di impieghi svolti da lavoratori stranieri e ha reso più difficile ottenere la residenza permanente.
Nel 2014, i cittadini di Singapore erano appena il 61% della popolazione. Entro il 2030 i lavoratori stranieri saliranno da 1,6 milioni a 2,3-2,5 milioni. A questi si sommano gli stranieri residenti, che cresceranno da 500mila a 600mila.
L’immigrazione è fondamentale per sostenere la crescita economica di una società con bassi tassi di natalità e popolazione sempre più anziana. Nel 2030 si stima ci saranno 2,1 lavoratori per ogni over 64ennne, nel 2014 erano 6.
Problemi stanno emergendo anche con le minoranze malese e indiana.
La criminalità è estremamente ridotta e la corruzione quasi inesistente.
Come scrive l’ambasciatore italiano a Singapore, Paolo Crudele, nel volume «Italy and Singapore. Converging differences/Italia e Singapore. Le differenze che avvicinano» (Arel-Il Mulino), oggi la sfida per la città Stato è reimpostare un modello di sviluppo che permetta di difendere il vantaggio competitivo che l’ha resa finora la prima scelta da parte di chi investe nel Sud-Est asiatico. Tale riorientamento «avviene – come caratteristico dell'esperienza singaporiana – secondo un approccio di ragionata programmazione, in una visione pluriennale». Il modello che inizialmente allettava la grande industria occidentale – la manodopera a basso costo, le agevolazioni fiscali, gli incentivi economici – va sostituito con un’economia avanzata tecnologicamente, capace di creare valore. Oggi le politiche di governo si orientano a promuovere e sostenere servizi altamente specializzati, mentre si punta a una manifattura concentrata su settori all’avanguardia quali il farmaceutico e le tecnologie
applicate alla medicina, le tecnologie dell’informazione, il settore aerospaziale, le energie rinnovabili, l’ingegneria marittima e di precisione. La manifattura locale viene spronata a diventare globale, ad affrontare i mercati, mentre gli investimenti stranieri sono benvenuti se apportano conoscenza, se stimolano la crescita di start-up innovative.