Il governo di Viktor Orban si è scontrato con i gruppi bancari presenti nel Paese, ha tassato le multinazionali dell’hi-tech e ha nazionalizzato i fondi pensione. A suo modo ha portato il Paese fuori dalla crisi: l’economia ungherese - secondo le previsioni della Commissione europea - dovrebbe crescere quest’anno del 2,5% dopo essere cresciuta del 2,9% nel 2015; il deficit pubblico è stato riportato sotto la soglia definita dai parametri di Bruxelles; il debito pubblico è in calo intorno al 74% del Pil. Ma l’Ungheria - meno di 10 milioni di abitanti e un Pil di circa 90 miliardi di euro - è un Paese piccolo, con una moneta debole, che solo cinque anni fa è stato a un passo dal default. E nonostante abbia ridotto il tasso di disoccupazione, ha un reddito pro capite che anche nell’era Orban è sceso nei confronti di quello di Polonia e Slovacchia.
I dubbi sulla tenuta delle politiche economiche di Orban
«L’espansione dell’economia ungherese è stata notevole negli ultimi anni, aiutata da robuste esportazioni e da una domanda interna comunque stabile. Ma i redditi sono tra i più bassi tra i Paesi dell’Ocse e saranno necessarie profonde riforme strutturali per sostenere la crescita nel medio periodo, rafforzare gli investimenti e migliorare le capacità della forza lavoro alle nuove esigenze del mercato», scrivono gli esperti dell’Ocse in un report diffuso all’inizio di maggio. «L'Ungheria è in ritardo rispetto agli altri Paesi dell’Europa centro-orientale, ha bisogno di riforme strutturali che difficilmente potranno essere realizzate da questo governo», scrive invece William Jackson di Capital Economics. «Il rischio per l’Ungheria è economico e non politico. L’economia presenta notevoli elementi di disequilibrio», spiega Dan Bucsa, economista di Unicredit secondo il quale «le scarse prospettive di crescita impediscono all’Ungheria di convergere verso la media degli standard di vita europei. Questo ritarda anche il processo di adesione all’euro che non potrà avvenire prima del 2030».
La versione di Budapest e gli investimenti dall’estero
«Siamo stati molto criticati in Europa perché abbiamo dovuto fare riforme radicali per cambiare il Paese. Ma i risultati che abbiamo raggiunto ci danno ragione: nel 2010 stavamo peggio della Grecia oggi la crescita è solida con il Pil in costante aumento, la disoccupazione è stata dimezzata al 6,5%, il deficit sotto controllo», dice Peter Szijjarto, ministro ungherese degli Esteri e del Commercio estero. «E siamo sempre più aperti verso i mercati internazionali: le nostre esportazioni - aggiunge Szijjarto - valgono il 91% del Pil, abbiamo raggiunto uno stock di investimenti dall’estero superiore a 80 miliardi di dollari».
L'Ungheria è nei fatti uno dei Paesi dell'Est europeo che attraggono più investimenti diretti dall'estero. Le imprese straniere, soprattutto quelle tedesche, austriache, olandesi, americane e anche italiane - scelgono di delocalizzare in Ungheria guardando al costo del lavoro, alla qualità della manodopera, alla localizzazione geografica e alle prospettive di sviluppo nei mercati dell'area. Nel 2014 gli investimenti diretti nell'economia ungherese hanno raggiunto i 4,1 miliardi di dollari, un totale lontano dai record del 2011 e del 2012 ma in aumento di oltre il 30% rispetto al 2013.
Gli affari sono affari e non guardano alla retorica di Orban
Le dichiarazioni sopra le righe, le posizioni in netto contrasto con i principi stessi dell’Unione - come quello dell’accoglienza per i rifugiati che chiedono asilo fuggendo dalla guerra in Siria - e le decisioni irrituali del governo di Budapest - con le tasse per i grandi gruppi della distribuzione, della tecnologia e dei servizi oltre a quelle per le banche internazionali che operano nel Paese - non sembrano fin qui aver danneggiato l’economia magiara che cresce e rispetta tutti i parametri di bilancio concordati con i partner europei.
Nelle turbolenze che hanno coinvolto i Paesi emergenti negli ultimi mesi, inoltre il fiorino ha tenuto bene, meglio dello zloty polacco, ai margini dell’euro. Mentre la Banca centrale è impegnata a ridurre la vulnerabilità di un’economia che ha un debito verso l’estero pari al 116% del Pil.
Nella sua parabola dal liberismo al nazionalismo, ai limiti dei trattati europei, Orban ha trovato numerosi alleati e qualche seguace. Con la Russia di Putin ha firmato un contratto da 10 miliardi di dollari per la costruzioni di due nuovi reattori nella centrale nucleare di Paks; con la Polonia di Jaroslaw Kaczynski la sintonia sembra totale, anche in economia.
Orban ha, a suo modo, ha ridato slancio al Paese, ha rimesso in ordine il bilancio dello Stato, ha riscritto la Costituzione magiara e ha sottomesso alla volontà del governo anche l'azione della Banca centrale: sempre in forte contrasto con le indicazioni della Ue e della Bce. Ha sbattuto la porta in faccia all'Fmi chiudendo il programma di aiuti ed è riuscito a trovare il supporto del mercato con ripetute emissioni di bond in dollari. In parte ha vinto la sua scommessa anche se è da valutare quanto l’economia ungherese possa reggere a eventuali nuove turbolenze internazionali.