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L'eredità dei Ds non va al Pd: 2400 immobili e 400 quadri

di Paolo Madron

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16 GIOUGNO 2008

Mentre Walter Veltroni pensava al nuovo partito liquido, c'era qualcun altro che lavorava alacremente alla liquidazione del vecchio. Formalmente i Ds, ultimi eredi di quello che fu il glorioso partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, spireranno nel 2011 con la presentazione dell'ultimo bilancio. Sempre che la diffidenza tra le due anime del Pd, dove Margherita ed ex comunisti sono poco serenamente confluiti, non ne prolunghi inaspettatamente la vita. Prospettiva, quest'ultima, che solo a pensarla riaccende tra i diessini le speranze di chi, con la fusione, ha perso quel senso di appartenenza e di memoria condivisa di quando ai congressi si cantava bandiera rossa la trionferà, falce e martello non erano ancora un emblema ingombrante, e a nessuno sarebbe mai venuto in mente,sfidando la stridente cacofonia, di chiamare "democratiche" le feste dell'Unità.

Il commissario liquidatore è un uomo di rude simpatia, viso sornione segnato da un paio di baffetti vintage tali però da non nascondere i lampi di sarcasmo che lo attraversano. Ugo Sposetti, 61 anni, tesoriere dei Ds rieletto ad aprile deputato nella circoscrizione Lazio 2 dopo aver battagliato con il Loft che in omaggio alla filosofia del largo ai giovani voleva sistemarlo ai piani bassi della lista, ha il compito ingrato di chiudere la baracca.

Sposetti ha cominciato anzitempo, quando ancora il Pd era di là da venire,affrontando l'indebitamento accumulatosi negli anni. Curioso che mentre lui ne trattava la sistemazione con le banche, qualcuno dei suoi compagni puntasse invece a possederle. Dai 580 milioni di euro ereditati dalla vecchia gestione oggi ne sono rimasti 140 che entro la fatidica scadenza del 2011 dovranno essere azzerati.

Poi, una volta alleggerita la pesante zavorra, il tesoriere diessino si è messo a lavorare sul patrimonio, quello tangibile e quello simbolico. Un lavoro lungo e complicato per differenti motivi. Il primo è che, per come la direbbe il cinefilo Veltroni quando nel secolo scorso tuonava contro gli spot che inframmezzavano i film in tivù, non si interrompe a cuor leggero un'emozione che dura da quasi novant'anni.

Il secondo, più prosaico, è che i Ds non hanno mai avuto l'esatta contezza di quel che possedevano, così che si è dovuto procedere a un minuzioso inventario. Terzo, ma più importante, bisognava risalire ai proprietari, cosa tutt'altro che scontata. Molto spesso infatti il loro intestatario era il segretario della locale federazione, o addirittura della sezione di quartiere cui il donatore in procinto di passare a miglior vita trovava più semplice affidare la pratica. E anche se con il crollo del muro di Berlino e i processi di revisione susseguitisi dalla Bolognina in avanti le donazioni sono cessate d'emblée insieme all'ideologia che ne alimentava il flusso,la roba accumulata era tanta e abbisognava di un radicale intervento di sistemazione.

Il censimento ha catalogato 2.400 immobili di proprietà delle organizzazioni territoriali del partito. Si va da normali appartamenti a uffici adibiti a sede, a palazzi di pregio (per altro già venduti) come Botteghe Oscure, quello di Frattocchie le cui stanze ospitavano la scuola politica, o quello romano di piazza Campitelli dove c'era il quartier generale dell'associazione Italia-Urss. Roba che farebbe gola a qualsiasi fondo immobiliare, e che il PciDs ha sempre gestito alla viva il parroco, beatamente inconsapevole del tesoro che si trovava in casa. In una brutta parola, che ora anche al Botteghino il verbo finanziario ha fatto proseliti, non sono mai stati ottimizzati. Che fare di questi immobili che, senza nulla togliere ai famosi simboli, sono la vera ciccia del ragguardevole patrimonio?

Sposetti e i tesorieri locali ci hanno pensato molto. Occorreva trovare la formula che meglio garantisse la separazione tra gestione e politica, sottraendoli ai capricci e alla volubilità di quest'ultima.

Maliziosamente, occorreva scegliere una istituzione giuridica che mettesse al riparo il patrimonio diessino dagli eventuali appetiti della nuova dirigenza del Partito democratico, là dove a rigor di logica avrebbe dovuto confluire. Perché un conto sono gli ideali, per altro già flebili di fronte alla fusione fredda che ha dato vita al nuovo soggetto, un altro la cassa.
Alla fine, nonostante che l'istituto in sé abbia una forte venatura autoreferenziale, o forse proprio per questo, si è optato per la fondazione. Anzi, le fondazioni, le quali almeno a livello di statuto e funzionamento sono in tutto e per tutto simili a quelle bancarie. Ogni federazione s'è fatta la propria andando a pescare, almeno nel nome, nel retaggio della tradizione. I sardi per esempio l'hanno intitolata a Enrico Berlinguer, ad Alessandria hanno invece scelto Luigi Longo, l'ultimo segretario custode della stretta ortodossia marxista-leninista, Milano a Elio Quercioli, ex vice sindaco, deputato nonché figura di spicco della vecchia nomenclatura. Le Fondazioni non dovranno rispondere a nessuno: non al segretario nazionale del Pd e nemmeno ai segretari regionali o provinciali. Avranno un consiglio di amministratori, un comitato d'indirizzo che indicherà il modo migliore per valorizzare il patrimonio, e naturalmente dovranno redigere un bilancio che obbedisca alla massima trasparenza. Ma tra le loro casse e quelle del Pd, ora affidate al nuovo tesoriere Mauro Agostini, non c'è né ci sarà alcuna contiguità. Detta più semplicemente, i diesse non portano nulla in dote al nuovo raggruppamento, il quale a sua volta nulla potrà pretendere. Inutile dire che la separazione, anche visto il cronico bisogno di soldi della po-litica, sta scatenando polemiche a non finire.

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