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Nel Lince dove sono sistemata, sul sedile posteriore, cerco di cacciar via la paura. Alla mia sinistra c'è il mitragliere. È nervoso. Si scambiano ordini via radio. Dall'altro lato c'è un collega giornalista. Altri due militari sono seduti sui sedili anteriori. La paura c'è e credo di non essere l'unica. Del resto, dicono che i soldati devono averne, perché la paura aumenta il livello di allerta. I sei militari diretti al quartier generale sono morti su un veicolo come questo. «Se succede qualcosa, cosa facciamo?», chiedo al soldato al volante. «Assolutamente niente - mi risponde - resti dov'è e non si muova».
Quando il blindato lascia finalmente la base ho il cuore in gola e la polvere nel naso. Fuori dai vetri il paesaggio è buio e minaccioso. Quando si avvicina un'automobile o, peggio, un grosso camion, mi sento stringere lo stomaco. Noi andiamo molto veloci e in una ventina di minuti raggiungiamo Camp Invicta. Quando vedo l'insegna mi sento sollevata. Siamo salvi. Qualcun altro però non tornerà più a casa. Questione di minuti: sui Lince sventrati avrei potuto esserci anch'io.