Otmar Issing, uno dei padri dell'euro, espone correttamente il principio fondante della moneta unica. Nelle intenzioni – ha spiegato Issing al Financial Times – l'euro avrebbe dovuto essere un'unione monetaria ma non politica. Gli stati partecipanti crearono una Banca centrale comune ma rifiutarono di cedere a un'autorità comune il diritto di tassare i propri cittadini. Questo principio fu inserito solennemente nel Trattato di Maastricht e da allora è stato interpretato con rigore dalla Corte costituzionale tedesca. L'euro è stato un'impresa unica e inusuale, e adesso è la sua praticabilità a essere in discussione.
È evidente che c'è una falla. Perché una valuta possa dirsi veramente tale devono esserci una Banca centrale e un Tesoro. Non è necessario che il Tesoro gestisca l'imposizione fiscale quotidiana dei cittadini, ma dev'essere disponibile nei momenti di crisi. Quando il sistema finanziario è a rischio tracollo, la Banca centrale può fornire la liquidità, ma solo un Tesoro può affrontare i problemi di solvibilità. Questo è un fatto ben noto, che tutti quelli coinvolti nella creazione dell'euro avrebbero dovuto avere ben chiaro. Issing ammette che lui era fra quelli convinti che «avviare un'unione monetaria senza aver prima creato un'unione politica equivaleva a mettere il carro davanti ai buoi».
L'Unione europea è stata creata mettendo il carro davanti ai buoi, fissando traguardi e scadenze limitati ma politicamente raggiungibili, nella consapevolezza che non sarebbero stati sufficienti e che al momento opportuno si sarebbero rese necessarie misure aggiuntive. Per varie ragioni, però, il processo si è gradualmente inceppato. Ora l'Ue è congelata nella sua forma corrente.
Lo stesso vale per l'euro. Il crac del 2008 ha rivelato la falla nella nave, quando i membri dell'euro hanno dovuto provvedere in maniera indipendente a salvare i rispettivi sistemi bancari.

La crisi del debito in Grecia ha spinto la faccenda fino al parossismo. Se i paesi membri non riusciranno a fare passi in avanti, la moneta unica rischia di colare a picco.
La costruzione originaria dell'euro ipotizzava che gli stati membri avrebbero rispettato i limiti fissati dal trattato di Maastricht. Ma i precedenti governi greci hanno clamorosamente violato tali limiti. L'esecutivo di Giorgos Papandreou, eletto lo scorso ottobre con il mandato di fare un repulisti, ha reso noto che il disavanzo di bilancio ha toccato nel 2009 il 12,7%, scioccando le autorità europee e i mercati.

Le autorità europee hanno accettato un piano per ridurre gradualmente il disavanzo con una prima tranche del 4%, ma non è bastato a rassicurare i mercati. Il premio di rischio sui titoli di stato greci rimane intorno al 3%, privando la Grecia di gran parte dei benefici dell'appartenenza all'euro. Se si continuerà su questa strada, c'è il concreto pericolo che la Grecia, anche mettendo in campo il massimo sforzo, non riesca a tirarsi fuori da questa situazione. Ulteriori tagli di bilancio avrebbero come risultato di deprimere ancora di più l'attività economica, ridurre gli introiti delle tasse e peggiorare il rapporto debito/Pil. Considerando questi pericoli, in assenza di un'assistenza esterna il premio di rischio non tornerà al livello precedente.

Ad aggravare la situazione ci pensa il mercato dei Credit default swap (Cds), che è sbilanciato in favore di chi specula sui fallimenti. Puntando sul rialzo dei Cds, il rischio diminuisce automaticamente se ci si sbaglia. È il contrario di vendere azioni allo scoperto, dove se ti sbagli il rischio aumenta automaticamente. La speculazione sui Cds può spingere ancora più in alto il premio di rischio.

I ministri dell'Economia dell'Ecofin, ammettendo l'esistenza del problema, nell'ultima riunione si sono impegnati per la prima volta «a preservare la stabilità finanziaria dell'area euro nel suo complesso». Ma non sono ancora riusciti a trovare un meccanismo per farlo, perché gli accordi istituzionali esistenti non ne offrono nessuno (anche se l'articolo 123 del Trattato di Lisbona crea una base legale in tal senso). La soluzione più efficace sarebbe quella di emettere, separatamente e tutti insieme, titoli di stato europei garantiti per rifinanziare, ad esempio, il 75% del debito in scadenza, a patto che la Grecia rispetti i traguardi fissati, lasciando ad Atene l'onere di finanziare come meglio può il resto delle sue esigenze. In questo modo si riuscirebbe a ridurre in modo significativo il costo del finanziamento, e sarebbe la stessa cosa dell'Fmi che eroga prestiti condizionali a scaglioni successivi.
Ma questo è politicamente impossibile perché la Germania è inflessibilmente contraria a svolgere la funzione di cassa d'emergenza per partner dalle mani bucate. Dunque bisognerà trovare delle soluzioni raffazzonate.

Il governo di Papandreou è determinato a correggere gli abusi del passato e può contare su un forte consenso nell'opinione pubblica. Ci sono state proteste di massa e resistenza da parte della vecchia guardia del partito di governo, ma la cittadinanza sembra pronta ad accettare l'austerità se vedrà passi avanti nella correzione degli abusi di bilancio (e gli abusi sono talmente tanti che non sarà difficile).

Per la Grecia, dunque, le soluzioni raffazzonate potrebbero bastare, ma resta il problema degli altri, cioè Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda. Tutti insieme questi paesi rappresentano una fetta di Eurolandia troppo grossa per poter essere aiutata in questo modo. La Grecia potrebbe scamparla, ma il futuro dell'euro rimarrà in forse. Magari riuscirà a gestire questa crisi, ma che cosa succederà quando arriverà la prossima? Che cosa serve è evidente: sistemi istituzionali e di controllo più intrusivi per un'assistenza condizionale, e sarebbe auspicabile la creazione di un mercato di eurobond ben organizzato. L'interrogativo è se si riuscirà a creare la volontà politica per realizzare questi passi avanti.

(Traduzione di Gaia Seller)

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