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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2014 alle ore 07:50.
L'ultima modifica è del 01 luglio 2014 alle ore 08:51.

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La web tax e come dir si voglia – «chiamatela Carolina o quello che volete, purché si introduca», ha commentato ironicamente il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, intervenendo a un convegno organizzato ieri alla Camera dei Deputati – è nelle mani della presidenza italiana del semestre Ue che si apre oggi. Perché dopo la bocciatura della web tax formato nostrano – inserita nell'ultima legge di stabilità e dopo cancellata da un decreto legge di aprile – è l'Europa che se ne deve occupare.

Così aveva promesso il premier Matteo Renzi spiegando le ragioni dello stop.
E Francesco Boccia – padre, anche in qualità di presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, di quella norma dal destino brevissimo e regista dell'incontro di ieri – non ha dubbi «che Renzi porrà sul tavolo Ue la questione come prioritaria. Non si tratta solo di un problema fiscale, ovvero far pagare le tasse all'economia digitale, ma di un affare di civiltà».
Il riferimento è, in particolare, ai giganti del web: Google, Amazon, Facebook e gli altri. Aziende dai fatturati stratosferici ma che pagano pochissimi tributi (ovviamente, rapportate al fatturato) nei Paesi europei con aliquote di tassazione che non siano da prefisso telefonico. Italia compresa. Preferiscono – ed è comprensibile – versarle in Stati dove il Fisco è più generoso, come l'Irlanda. Riescono a farlo attraverso (legittimi) marchingegni contabili. Il risultato è, però, che nelle altre realtà in cui lavorano e producono all'Erario resta poco o niente. Ecco perché nella legge di stabilità si era pensato di introdurre la norma che obbligava chi intendesse acquistare servizi di pubblicità online a farlo da soggetti titolari di partita Iva rilasciata in Italia. Meccanismo ribattezzato web tax – «approvato – ha sottolineato Boccia – all'unanimità e senza alcun blitz notturno» – che ha però scatenato un putiferio di critiche. Tanto da indurre il Governo a fare marcia indietro.

Il problema, però, resta. Come ha spiegato ieri Antonio Uricchio, docente di diritto tributario e rettore a Bari, «la configurazione del web come una sorta di no tax land, insuscettibile di essere assoggettata a disposizioni di ordine tributario, se appariva giustificata nella fase di avvio e di sviluppo nell'intento di favorirne la diffusione, appare oggi non più accettabile».
D'altra parte, ha ricordato Boccia, settori come la musica, il cinema, l'informazione, il turismo, il commercio elettronico e i giochi «sono stati stravolti dall'economia digitale». Basta vedere i numeri per capirlo: l'e-commerce nel 2012 ha superato a livello mondiale quota mille miliardi di dollari, con una crescita del 21,1 per cento.
Con simili margini di sviluppo, il fatto che le imprese del web non paghino le tasse – o ne paghino poche – è distorsivo della concorrenza. «Sono imprese straordinarie – ha affermato Carlo De Benedetti, presidente del gruppo L'Espresso – ma si presentano in modo fuorviante: continuano a definirsi aziende tecnologiche e invece sono commerciali. I dati li usano per profilare i clienti, con i contenuti non loro raccolgono pubblicità. Tutto legittimo, ma paghino le tasse».

Dello stesso avviso Fedele Confalonieri: «Non c'è concorrenza leale. Fanno gli imprenditori con i contenuti degli altri. Vogliamo dirlo? Fanno i pirati. E c'è anche un problema di trasparenza: da oggi pure l'idraulico deve avere il Pos, mentre Google, a cui l'Antitrust aveva chiesto il fatturato, si è rifiutata di darlo».
Ce la farà Renzi a trovare una soluzione nel semestre italiano? De Benedetti e Confalonieri sono convinti che la soluzione vada cercata a livello Ue. La multa da 1 miliardo di euro che la Francia ha comminato a Google per evasione – anche Germania e Gran Bretagna si stanno muovendo in tal senso – può essere utile, ma solo a livello tattico. Non può, invece, essere un rimedio sistematico.

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