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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2014 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 02 luglio 2014 alle ore 08:12.

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Il tasso di disoccupazione ormai al 12,6%, il crollo della domanda e la deflazione stanno indebolendo - se non sfibrando - la struttura interna, economica e sociale, dell'Italia. Zero inflazione. Zero margini. Zero crescita. Zero di zero. Tutto questo, in un Paese che non rovina a terra per l'energia civica di molti semplici cittadini (il manzoniano «oscuro volgo che nome non ha »)e per il profilo di parecchie sue imprese che riescono a rimanere incardinate con successo alle catene globali del valore.

La persistenza di un preoccupante tasso di disoccupazione (appunto il 12,6%, registrato a maggio) fa il paio con la propensione alla deflazione confermata lunedì nelle statistiche dell'Istat e con la crescita zero desumibile per il 2014 da uno sguardo approfondito delle sue analisi congiunturali. Il problema è il combinato disposto - esplosivo - di queste tendenze che si alimentano, si sovrappongono, si avviluppano e si determinano l'una con l'altra.

Nell'attuale contesto italiano, il Centro Europa Ricerche ha rispolverato il Misery Index, il modello elaborato nel 1970 alla Brookings Institution da Arthur Okun e basato sulla stagflazione, la compresenza di alta disoccupazione e di elevata inflazione. «A lungo si è pensato che nulla fosse peggio della stagflazione – osserva il capoeconomista del Cer, Stefano Fantacone – in realtà il caso italiano potrebbe fare scuola per mostrare la straordinaria nocività della simultanea presenza di una consistente disoccupazione e di una strisciante deflazione». Nell'analisi effettuata dal Cer sugli ultimi dati Istat, il Misery Index – l'Indice della Miseria – nell'autunno del 2008 - la stagione del fallimento di Lehman Brothers - era pari per l'Italia a tre punti. Da allora il tasso di occupazione è salito e l'inflazione è scesa. Non vi è stato, però, alcun effetto compensativo. La curva del Misery Index, con un andamento erratico ma deciso, sale sale verso l'alto e, nel 2013, sfonda quota sei punti. Nel 2013 e nel 2014 l'Indice della Miseria si assesta, procede a piccoli sbalzi, resta in un preciso sentiero. Chiosa Fantacone: «Sembra essersi istruito un processo assai dannoso per l'economia italiana: la bassa inflazione ha il profilo della vera e propria deflazione. La quale, diffondendosi nelle arterie del sistema industriale, non potrà non accendere nuovi focolai favorendo nuove crisi aziendali. E, dunque, appiccando a sua volta il fuoco del tasso di disoccupazione».

Su questa visione sistemica, intonata a un sostanziale pessimismo, è d'accordo il capoeconomista di Nomisma, Sergio De Nardis. Sia dal punto di vista dinamico, cioè del rapporto di integrazione (o, meglio, in questo periodo di disintegrazione) fra gli indicatori dei prezzi, dei consumi, dell'occupazione e dello sviluppo. Sia dal punto di vista più statico. «In particolare – osserva De Nardis – vanno letti in filigrana i dati sui prezzi al consumo e sul Pil elaborati dall'Istat». Sui prezzi al consumo, va operato un chiarimento: il dato di giugno - armonizzato con Eurostat - vale lo 0,2 per cento. «Se non è deflazione questa – continua De Nardis – si tratta di un livello dei prezzi che è strutturalmente incompatibile con l'idea di fare impresa. Non solo perché crea nella domanda una aspettativa di flessioni ulteriori che bloccano ogni attività. Ma anche perché svuota dall'interno, nelle aziende italiane, la prospettiva di ottenere margini industriali e finali in grado di sostenere investimenti». Non solo: un livello dell'inflazione inferiore al 2% appare incoerente con una economia innovativa in cui il valore dei prodotti va strutturalmente riconosciuto.
Questo intorpidimento dei tessuti economici italiani – nella loro componente dei consumi e nella loro componente produttiva, dal lato della domanda e dal lato della offerta – si sta già manifestando. «Nell'ultima nota mensile dell'Istat – nota De Nardis – per il primo trimestre del 2014 il Pil è negativo per lo 0,1% e, nel secondo trimestre, è stimato in una forbice compresa fra il -0,1% e il +0,3 per cento. Per il terzo e il quarto trimestre, non è riportata una cifra precisa, ma c'è un grafico che, per i ricercatori come noi, indica chiaramente un Pil a zero».

In realtà, che vi sia un rischio di Pil a zero se ne sono accorti pure i non specialisti. In molti paventano che una intonazione negativa dell'economia possa produrre, allo stesso tempo, effetti di scollamento del tessuto sociale e di disgregazione del sistema produttivo. Di certo, la crisi innescatasi nel 2008 ha modificato il profilo del Paese. Luigi Campiglio, economista dell'Università Cattolica di Milano, è stato – fin dai tempi dell'euro in cui l'inflazione per alcuni era "percepita" più che reale" – uno dei principali scrutatori del triangolo delle Marianne composto da consumi, redditi e risparmi. «Uno dei fili del gomitolo della crisi – osserva Campiglio – è rappresentato dalla drammatica erosione del risparmio delle famiglie. Un fenomeno di lungo periodo. Nel 1991, il risparmio delle famiglie consumatrici era pari al 24% del reddito disponibile. Nel 2012 è crollato all'8 per cento». Fino al 2012, i consumi sono rimasti constanti perché gli italiani hanno messo mano ai loro risparmi. «Ora questa camera di compensazione – chiosa Campiglio – non c'è più».

I consumi crollano. I prezzi scendono. E l'onda si abbatte sulla battigia della struttura occupazionale e produttiva del Paese, portando via ogni volta un altro pugno di sabbia. Questo vale nel macro: in tutta l'economia italiana. E vale tanto più nei singoli settori. Dice a questo proposito Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione: «Finora le imprese delle distribuzione, che fatturano 130 miliardi di euro e hanno 450mila addetti, hanno mantenuto l'occupazione. Questo nonostante, negli ultimi dieci anni, si sia registrato nell'alimentare un calo generale del 10% a valore e del 17% a quantità. Una flessione dei ricavi e una erosione dei margini che hanno riguardato anche il non alimentare».

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