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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2014 alle ore 07:05.
L'ultima modifica è del 04 luglio 2014 alle ore 07:51.

Ha ragione il premier Matteo Renzi: la grande sfida è ritrovare l'anima dell'Europa e riportare fiducia e speranza nella Ue. A lungo l'Europa è stata una promessa di benessere ed equità per chi ne è stato, come noi, tra i soci fondatori e per chi ne è stato attratto successivamente fino ad arrivare a 28 Paesi aderenti all'Unione.
Oggi la situazione è assai diversa. La permanenza di elevati tassi di disoccupazione e di bassa crescita, a distanza di più di cinque anni dalla crisi del 2008, ha fatto aumentare le aree di disagio sociale ed emergere, nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, un euroscetticismo che ha preso di mira l'euro e la burocrazia di Bruxelles.

La realtà è che ci troviamo di fronte a un'Europa che chiede ai Paesi "periferici" dell'Unione e al nostro, in particolare, una serie di adempimenti, le cosiddette riforme strutturali, e un impegno per lo sviluppo che vanno, non c'è dubbio, posti in essere ma la cui efficacia dipende dal progetto complessivo che l'Europa intende adottare per tornare a essere un'area in cui dominano giustizia sociale, sviluppo e opportunità per tutti. La maniera migliore per rappresentare la situazione attuale è quella di un'"Europa Anemica". Non soltanto perché c'è bassa crescita ed elevata disoccupazione ma anche perché è assai modesto il dinamismo economico e sociale.
Le politiche di austerità di questi anni, come è riconosciuto dalla maggior parte degli analisti, hanno spesso approfondito la crisi piuttosto che risolverla. I conti vanno tenuti in ordine, non c'è dubbio. Ma non c'è alcuna evidenza che una volta assolta questa esigenza ne nascano automaticamente ripresa e sviluppo. Né che questo accada quando fosse realizzata quella riduzione massiccia del debito pubblico, così spesso auspicata. Debito e deficit sono assai più conseguenza della crisi che causa.

Occorre prendere atto che tutta l'Europa dell'euro sta attraversando una fase di difficoltà del proprio sistema produttivo testimoniata anche dai dati di questi ultimi giorni. Ma non è l'euro il problema principale dell'Europa. La Ue (includendovi la Germania) ha mostrato in questi anni una bassa dinamica della produttività rispetto agli Usa e al Giappone. Ciò si è accompagnato all'aumento del debito come conseguenza di uno standard di vita incompatibile con la ridotta competitività. La Ue non ha riaggiustato a sufficienza la sua economia rispetto ai cambiamenti geoeconomici, demografici e tecnologici degli ultimi 25 anni, anche se la Germania ha fatto decisamente meglio del resto del continente.
A livello produttivo, l'Europa è indietro rispetto agli Usa per peso di imprese giovani ed innovative rispetto a Pil, ricerca e sviluppo e occupazione, ma anche in termini di grandi imprese nate dopo il 1976, e per la velocità di crescita delle imprese nei 2-7 anni dopo la loro entrata sul mercato. La conseguenza è una bassa crescita della produttività totale. Va chiarito un punto. La produttività non cresce, come si tende a pensare, con i soli interventi dal lato dell'offerta.

Ci vogliono interventi sul lato della domanda con una politica di investimenti produttivi e un allargamento del mercato unico soprattutto nei servizi a rete e nel retail bancario. Serve una politica industriale, a cominciare da quella proposta di recente dalla Commissione Europea, non certamente legata ai "campioni nazionali" ma rivolta al sostegno dell'innovazione e dell'investimento sul capitale umano realizzato con politiche di medio periodo, con politiche cioè a orientamento costante nel tempo. In quest'ottica occorre aggiungere ai disincentivi per chi non tiene i conti in ordine, incentivi per i Paesi virtuosi che consentano loro di investire in questi settori.
Nel caso dell'Italia vanno usati al meglio i fondi strutturali europei ma è giusta la richiesta del nostro Governo che la quota di finanziamento prevista per questi investimenti a carico dell'Italia non venga calcolata come aumento del debito e del deficit rendendola altrimenti impossibile. Per realizzare il New Deal dello sviluppo in Europa che sarebbe quanto mai necessario, ci vuole però chi se ne occupi dal punto di vista istituzionale, così come c'è la Bce che ha la responsabilità delle questioni monetarie.

Non è difficile trovare la soluzione.
Basta pensare che la Commissione europea aveva proposto che accanto agli indicatori di squilibrio finanziario da esaminare nel corso del semestre europeo ci fossero anche indicatori di squilibrio sociale, disoccupazione e povertà, in relazione ai quali intervenire, come si fa nel caso di deficit eccessivi. Ci vuole la volontà di farlo. Speriamo che la si trovi. Non vanno di certo dimenticati i problemi legati ai potenziali squilibri finanziari, tanto più ora che la riduzione dei tassi di interesse a valori reali negativi, ha ridotto le munizioni dell'arsenale della Bce. Ma il punto centrale rimane quello dello sviluppo.
Luigi Paganetto è presidente della Villa Mondragone international economic Association

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