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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2014 alle ore 08:24.
L'ultima modifica è del 05 luglio 2014 alle ore 09:36.

Il senso di Faletti per il popolare, per il successo che ti catapulta in mezzo ai discorsi, sulle copertine dei giornali, nell'invidia dei colleghi, è stato straordinario. Il piccolo uomo venuto da Asti ha saputo usare sempre il mezzo del momento: fu sul palco del milanese Derby quando negli anni 70 da lì passava una generazione che avrebbe spopolato in tv e al cinema; poco dopo presidiava coi suoi pezzi comici (ah, Vito Catozzo) la tv commerciale degli anni 80, da Drive in poi fu al Fantastico istituzione della RaiUno anni 90 di Baudo.
Uno col suo senso del palcoscenico non poteva mancare quello dell'Ariston e vent'anni fa esatti il quasi rap di (minghia) Signor tenente aggiornava L'italiano di Cutugno, altro must del decennio precedente. Poi il passo successivo, forse quello che più ha suscitato gelosie, il successo come scrittore, quel Io uccido (2002, quattro milioni di copie) che lo trasformò anche nel modo di vestire: da allora austere giacche e giacconi neri su Tshirt altrettanto nerissime, pizzo da guru e ospitate in festival e programmi televisivi a raccontar l'incontro con la scrittura. Quest'ultima attività lo porta poi addirittura in Einaudi, costola Stile Libero. Non si è fatto mancare il cinema, la pittura e qualcosa ancora. Tutto sommato quasi normale per uno che affermava di non saper stare senza far niente. Il provinciale e il dilettante sono le figure che meglio racchiudono questa parabola popolare che rischiò già l'interruzione con l'ictus del 2002 e che si è conclusa ieri, a non ancora 64 anni. Il ragazzo che da Asti arriva a Milano e poi a Montecarlo (Io uccido) e New York, tenendosi un buen retiro all'isola d'Elba, un po' ricorda l'avvocato Paolo Conte (laureato in Giurisprudenza era pure Faletti) che dalle stesse terre vola a Parigi. Li differenzia solo la fetta del proprio pubblico, più misurata e colta per l'uno, sempre più vasta e trasversale per l'altro: non certo l'approccio ai loro miti che fa diventare l'uno un jazzista quasi francese e l'altro un bestsellerista dalle trame cosmopolite, ma di un mondo comunque, per entrambi, immaginato dalle brume padane. «L'uomo è uno e nessuno», recita l'incipit di Io uccido, è una frase che non stonerebbe nel canto dell'avvocato (Conte) di Asti perché ha quella sfrontatezza un po' esagerata, quasi fumettistica, tipica di chi non sente il peso della cultura alta, cattedratica e ammonitrice.

Il dilettante vive di una forma di attitudine leggera, entusiasta verso la vita e le passioni che non significa sempre assenza di studio e professionalità. Il Faletti «più grande scrittore italiano», come fu proditoriamente agitato da D'Orrico ai tempi dell'esordio, mette fuorigioco i suoi libri, artigianissimi prodotti di un talentuoso lettore (e scrittore) della domenica, innamorato dei grandi plot internazionali e delle frasi ad effetto. Un altro aspetto dell'uomo che incontrai una sera nella casa romana del suo editore milanese e che incredulo guardava se stesso ripercorrere la propria carriera, ospite di una puntata speciale di Matrix registrata poche ore prima.

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