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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2014 alle ore 08:39.
L'ultima modifica è del 17 luglio 2014 alle ore 08:47.

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La Camera dei deputati ha varato, nei giorni scorsi, il sesto intervento di salvaguardia dei lavoratori cosiddetti esodati (coloro ai quali è riconosciuto il diritto di andare in quiescenza avvalendosi dei requisiti precedenti la riforma Fornero del 2011).

'operazione, che riconosce la protezione prevista ad altri 32mila soggetti e ne porta a 170mila il numero complessivo, è stata possibile grazie all'impiego (ecco la funzione del fondo di solidarietà istituito con la legge di stabilità per il 2013) dei risparmi riscontrati nella seconda e nella quarta salvaguardia, dove le previsioni e i relativi stanziamenti si sono rivelati più generosi dell'effettivo fabbisogno (a prova del fatto che sul numero degli esodati nella passata legislatura vi fu qualche esagerazione). Ne deriva che - al netto del ridimensionamento dei lavoratori garantiti dalle deroghe precedenti - il numero dei salvaguardati aumenta di 8mila circa.

Per far quadrare i conti il governo (anche perché si è scelto di inserire una ''categoria'' nuova di zecca: i ''terministi'' che hanno perduto il lavoro tra il 2007 e il 2011 e non ne hanno ritrovato, successivamente, un altro a tempo indeterminato) ha dovuto aggiungere alcune centinaia di milioni prelevati dal fondo per l'occupazione che vanno a incrementare un ''pacchetto'' da 12 miliardi a regime. È in corso un dibattito rivolto a trovare - si sostiene nel governo - una soluzione strutturale al problema.

Sia chiaro: nessuno mette in discussione la necessità di tutelare dei lavoratori non più giovani, usciti per varie ragioni dal mercato del lavoro, che, per effetto delle nuove regole, rischiano di restare privi di reddito senza poter varcare la soglia di accesso alla pensione. Ma valutando correttamente le proposte circolanti si ha l'impressione che gli esodati c'entrino poco e che in realtà si stia ripristinando una forma ampia di pensionamento anticipato, con requisiti anagrafici e contributivi praticamente analoghi a quelli in vigore prima della legge Monti-Fornero.

Tutto ciò sulla base di una rinuncia esplicita a configurare politiche attive di placement per lavoratori anziani. A noi sembra discutibile che persino un governo che fa del giovanilismo la sua bandiera finisca per dedicare tempo e risorse a favore soltanto di coloro che sono a un passo dalla pensione e non si preoccupi di impostare, con la gradualità del caso, un modello di pensionamento sostenibile e adeguato per i giovani di oggi e pensionati di domani.

Basterebbe mettere in sinergia le politiche a favore dell'occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto in avanti e cioè a un modello che sia in grado di tutelare, al momento della quiescenza, il lavoro di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze (saltuarietà, discontinuità, mutamento di tipologia, ecc.) rispetto al passato.

I capisaldi di una possibile proposta di legge, di cui noi, nel ruolo di parlamentari, fummo protagonisti in una logica bipartisan nella XVI Legislatura, potrebbero essere i seguenti: 1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi assunti e nuovi occupati (quindi per i giovani, più o meno 400mila l'anno); 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un'aliquota uniforme - in ipotesi del 25-26% - per dipendenti, autonomi e parasubordinati, dando luogo ad una pensione obbligatoria di natura contributiva; 3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all'importo dell'assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia, a suo tempo, da zoccolo per la pensione contributiva o svolga il ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico.

La proposta, nel suo insieme, realizzerebbe, stabilmente, una convenienza ad effettuare nuove assunzioni grazie alla previsione di un'aliquota contributiva per le imprese più ridotta di ben 7-8 punti (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro), la cui unificazione al ribasso aiuterebbe a rendere ''neutrale'', almeno dal punto di vista pensionistico, la tipologia scelta per il contratto di assunzione.

La pensione di base compenserebbe, per i lavoratori, i minori accreditamenti secondo il modello contributivo, in conseguenza della riduzione dell'aliquota.

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