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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2014 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 26 luglio 2014 alle ore 10:39.

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Sei trimestri di crescita ininterrotta lasciano l'Italia a chiudere la fila del G-7. Li ha inanellati la Gran Bretagna con lo 0,8% del Pil nel secondo trimestre del l'anno, confermato ieri dall'ufficio nazionale di statistica. Un colpo di reni riporta il regno di Elisabetta II a sventolare numeri appena superiori a quelli del 2008, quando esplose la crisi del credito. Le altre maggiori economie industrializzate del mondo c'erano già arrivate, solo l'Italia deve ritornare al passato, doppiando un passaggio che per Londra arriva tardi, ma arriva sull'onda di un altro primato. L'economia inglese – è opinione condivisa da Fmi e Banca d'Inghilterra – crescerà di oltre il 3% nel 2014.

E lascerà al palo gli altri soci di quel club, un poco demodè, che è il G7, utile terreno di paragone per misurare la qualità delle ricette per lo sviluppo. Una progressione, quella inglese, che continuerà a generare lavoro se la disoccupazione andrà al di sotto del 6%, come in molti prevedono, nel corso del 2015. Un boom imprevisto, almeno in questa dimensione, che non si può attribuire solo alla libertà d'azione di cui gode la Banca d'Inghilterra, generosa nel quantitative easing e in altre forme di politica monetaria non convenzionale.

È figlio di radicate abitudini nazionali che perpetuano politiche ormai antiche. La flessibilità del mercato del lavoro e la deregulation amministrativa sono accettate - nelle linee di fondo almeno, non nei passaggi più aspri - anche da un'opposizione laburista, lontana dalla Terza Via di Tony Blair e incline, com'è il partito di Ed Milliband, a ideologismi d'antan. È un boom figlio, soprattutto, delle nuove politiche a sostegno delle imprese lanciate con coraggio dal governo conservatore pur nell'emergenza di conti pubblici in rosso acceso.

Il taglio all'imposta corporate, che è stato immediato e incessante con correzioni all'ingiù anno dopo anno dal 2010 a oggi, e le agevolazioni sui brevetti hanno dato un altro deciso contributo al "tax appeal" di Londra nel mondo. Un motivo in più, oltre alla lingua e alla centralità planetaria garantita dal fuso orario, per attrarre capitali e società. Motori di una crescita su cui, si obietterà, pesano variabili, ma su cui, in realtà, grava una, e una sola, minaccia: i dubbi sulla futura permanenza della Gran Bretagna nell'Unione europea. Una scommessa che vale infinitamente di più delle mirabolanti schegge di pil aggiunte ieri dal bollettino dell'ufficio nazionale di statistica ai numeri del Regno.

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