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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 09:25.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 09:36.

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«Whatever it takes». Con queste tre parole pronunciate esattamente due anni fa il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi mise fine alla fase acuta della crisi dell'euro. Il giorno prima lo spread dei titoli pubblici italiani aveva raggiunto 518 punti base sotto la pressione degli attacchi speculativi di chi non credeva nella tenuta dell'euro. Per essere sicuro che le sue parole fossero prese sul serio dopo la promessa di fare «qualsiasi cosa» per salvare l'euro, Draghi aggiunse «e credetemi, sarà abbastanza». Il mercato gli credette. Da 518 lo spread cominciò a scendere, inesorabilmente, nonostante le dimissioni di Monti, le elezioni dal risultato incerto, il turnover al governo. Da mesi oscilla intorno ai 150-170 punti, un livello impensabile due anni fa.

Il «whatever it takes» non fu tanto un capolavoro di politica monetaria, ma un capolavoro di politica tout court. Nessuno speculatore si azzarda a scommettere contro un banchiere centrale determinato a stampare moneta. La parola chiave è «determinato». Per essere credibile in una manovra di questo tipo, un banchiere centrale deve godere di un sostegno politico incondizionato. Se questo sostegno c'è, il mercato non si azzarda a testarlo, e le parole bastano a fermare la crisi senza alcun costo politico per chi il sostegno ha concesso. Se invece il sostegno è incerto, il mercato prova a testarlo. Questo significa che le parole non bastano, il governatore deve far seguire alle parole i fatti, con un potenziale costo politico. Tanto più il costo politico è elevato, tanto più il sostegno al governatore diventa debole, e tanto più il mercato sente odore di sangue e scommette contro l'euro. Il rischio di venire sconfessato dalla Bundesbank o dal governo tedesco era elevatissimo. Draghi fu in grado di evitarlo.

Sono passati due anni e se oggi pochi speculano contro l'euro, le condizioni sottostanti non sono molto migliorate. Quando lo spread era a 518 punti, il rendimento dei titoli decennali italiani era a 6,50%, con un inflazione che allora in Italia era del 3,1%: significava un interesse reale del 3,4%. Oggi che lo spread è a 156, il rendimento del decennale italiano è 2.70%. Ma l'inflazione in Italia è solo allo 0,3%. Quindi il tasso di interesse reale è sceso, ma non è sceso di 380 punti base, bensì solo di 100. Ma anche questa stima è troppo ottimista. Quando il tasso di mercato su nuovi titoli era al 6,50%, il tasso medio era molto più basso, intorno al 4,1%, con un interesse reale di solo l'1%. Per contro, oggi anche se il tasso a cui il nuovo debito viene contratto è solo del 2,70%, il tasso medio è ancora intorno al 3,9%, che implica un tasso di interesse reale del 3,6%. Nonostante il famoso «whatever it takes», il costo reale dell'indebitamento pubblico è aumentato invece di diminuire.

Questo non significa che l'intervento di Draghi non sia stato utile. Senza di esso oggi l'euro non sarebbe sopravvissuto. Significa solo che non è bastato. Nonostante gli sforzi effettuati dal governo italiano, nonostante gli interventi della BCE, nonostante la scomparsa degli speculatori, oggi le condizioni di sostenibilità del debito pubblico italiano sono peggiori di quelle del 2012. La sostenibilità del debito dipende in modo cruciale dall'avanzo primario e dalla differenza tra il tasso di interesse reale sul debito e il tasso di crescita dell'economia. Con un tasso di interesse reale al 3,6% ed un tasso di crescita reale allo 0,3%, abbiamo bisogno di un avanzo primario del 4,5% solo per non far crescere il rapporto debito Pil (la differenza tra i due tassi di crescita deve essere moltiplicata per lo stock di debito su Pil pari a 1,37). Oggi il surplus primario è solo al 2,6%.

Questi semplici calcoli aritmetici ci dicono non solo che non saremo mai in grado di soddisfare il fiscal compact (in 20 anni dovremmo ridurre il rapporto debito Pil al 60%), ma anche che la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile a meno di una significativa ripresa dell'inflazione. Anche a tassi reali sul nuovo debito immutati, un aumento dell'inflazione anche solo al 2%, ridurrebbe il peso del debito, perché nei primi anni andrebbe ad erodere il valore dello stock (e di stock noi ne abbiamo tanto).
Un modesto aumento dell'inflazione aiuterebbe non solo noi, ma anche tutti i paesi indebitati del sud d'Europa. E contribuirebbe a un deprezzamento dell'euro, che avrebbe effetti benefici sulla nostra economia. Ma può Draghi aumentare l'inflazione?
Da un punto di vista economico la risposta è affermativa. Basta guardare quello che ha fatto il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda. Per riuscirci, però, Draghi deve convincere il mercato che è disposto a fare «whatever it takes» per alzare l'inflazione media dell'area euro al 2%. Per essere credibile, Draghi deve aver il completo sostegno politico di tutti i paesi dell'eurozona, ed in particolare della Germania. E qui sta il problema.

Per raggiungere un'inflazione media del 2% nell'eurozona, qualche paese dovrà convivere per qualche anno con un'inflazione superiore al 2%, ce lo dice l'aritmetica. E questo qualcuno è sicuramente la Germania. Si tratta però di un obiettivo suicida per qualsiasi premier tedesco. Non tanto e non solo per la storica avversione dei tedeschi verso l'inflazione. Ma per un semplice calcolo politico. A differenza degli italiani (che hanno investito principalmente in un bene reale come il mattone), la maggior parte dei tedeschi ha investito i propri risparmi in attività finanziare. Un aumento dell'inflazione al 3-4%, significa per loro una tassa sulla ricchezza. Nessun governo italiano avrebbe il coraggio di introdurre una imposta del 3% sul valore di mercato delle case (basta vedere cosa è successo a Monti per molto meno con l'IMU). Allo stesso modo, nessun governo tedesco sosterrà mai un'iniziativa in questo senso. Ma senza il consenso della Germania, il «whatever it takes» di Draghi non risulterebbe credibile, e quindi sarebbe incapace di elevare il livello di inflazione.

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