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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2014 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 31 luglio 2014 alle ore 08:42.

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Da Gaza alla Libia, passando per la Siria e l'Iraq, è in corso una sorta di guerra mondiale del Medio Oriente. Ma le fiamme dell'incendio, reale e metaforico, che si levano dai depositi di carburante di Tripoli lambiscono ogni giorno anche l'Italia: per la tragedia inarrestabile dei migranti, per gli interessi legati a gas, petrolio, commesse, ma anche per il duro lavoro di centinaia di tecnici (di cui un paio ancora sotto sequestro), per l'eredità storica e culturale che abbiamo nell'ex colonia, risorta dopo la fine di Gheddafi contro ogni livida previsione dei nostri alleati e concorrenti. Eppure la Libia sprofonda nell'indifferenza dell'Europa e degli Stati Uniti, fatta eccezione per qualche appello a un'effimera tregua. L'unica iniziativa notevole degli americani è stata di chiudere l'ambasciata, seguiti da quasi tutti gli altri che hanno lasciato l'ambasciatore italiano a parlare con rivoluzionari e contro-rivoluzionari che si disputano Tripoli, mentre in Cirenaica la guerra privata del generale Khalifa Heftar contro gli islamici si è trasformata in un duello per la sopravvivenza che stravolgerà la Libia orientale. L'Italia ha la guerra ai confini ma Bruxelles si affida a esangui comunicati: è il momento di lasciar perdere le beghe per poltrone e strapuntini e chiedere un intervento concreto. Francesi, britannici, americani, hanno bombardato per mesi Gheddafi dall'aria e dal mare, e ora, dopo aver fatto i bagagli dalla Libia, non mandano neppure una modesta goletta nella Sirte. Ricordiamocelo la prossima volta che ci chiedono aerei, navi e soldati. (Alberto Negri)

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