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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 07:15.
L'ultima modifica è del 01 agosto 2014 alle ore 10:27.

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Poco trasparente e poco liquido, ma anche troppo protetto e troppo piccolo. E soprattutto, ingessato da quel «capitalismo relazionale» che ostacola la contendibilità e allontana gli investitori. Da anni, e malgrado alcune riforme, la percezione del mercato italiano è macchiata da questi pregiudizi.
Riusciranno le nuove norme sul voto plurimo e sull'Opa a due soglie a cambiare questa percezione?

La risposta non è semplice, anche perchè l'attrattività del mercato italiano non dipende solo dalle regole di ammissione al listino o dalla governance delle imprese: per gli investitori internazionali, burocrazia, fisco e giustizia sono certamente un deterrente maggiore all'investimento in Italia, finanziario o industriale che sia. Quindi, pensare che i fondi stranieri, istituzionali o speculativi, possano essere messi in fuga da riforme il cui obiettivo è principalmente quello di favorire la quotazione di nuove aziende, in particolare le piccole e medie, appare quanto meno eccessivo. La regola di base degli investitori non cambia certamente: il denaro va dove trova le migliori condizioni. E se ne va se le condizioni non gli piacciono: i patti di sindacato e le piramidi societarie esistono da decenni e non piacciono a nessuno, ma a far fuggire gli invistitori dalla Borsa Italiana sono state finora le pessime condizioni della macchina pubblica, la mancanza di riforme strutturali, la crescita asfittica e la sensazione che la disciplina di bilancio, e soprattutto le politiche di riduzione del debito, non riescano ad entrare nei programmi dei governi. Basti ricordare quanto accaduto dal 2011 in poi. Non solo. È meglio la trasparenza delle azioni a voto plurimo o l'opacità delle attuali scatole citenesi e dei patti di sindacato? La risposta appare intuitiva.

Insomma, la conferma del voto plurimo nelle imprese non quotate non può certamente dar fastidio al mercato, ma anzi favorire il listing delle Pmi garantendo all'imprenditore la possibilità di aumentare il flottante da mettere in Borsa senza per questo rischiare di farsi scalare l'azienda in modo ostile. Se la Borsa italiana è stata criticata finora per la percentuale troppo bassa di capitale quotato dalle aziende, allora questa misura è buona per due ragioni: più azioni si collocano, più cresce la liquidità potenziale che possono attivare. Per quanto riguarda invece il voto multiplo nelle aziende già quotate, la critica sul rischio di una perdita di valore esiste ed è legittima: ma è anche vero che lo stesso effetto è prodotto dai patto di sindacato. Anche qui, l'investitore farà sue valutazioni. Infine, c'è chi teme che il periodo di 24 mesi di possesso delle azioni per poter godere del diritto al voto plurimo sia di per sè un detterrente alla partecipazione degli investitori: la risposta è che il voto aggiuntivo spetta a tutti gli azionisti, di maggioranza o di minoranza, e che il quadro in cui si muove l'azienda è certamente valutabile dal mercato in modo trasparente. Se il voto plurimo è deciso prima dell'Ipo, le carte sono scoperte e l'investitore sceglie liberamente se comprare i titoli al debutto o rinunciare e guardare altrove.

Ma anche nel caso della società già quotata, la libertà di scelta dell'investitore non è lesa: se un'azienda vuole cambiare lo statuto e introdurre azioni con voto plurimo, deve avvisare i soci con un mese di anticipo, lasciando dunque ampio margine alla libertà di scelta. Non solo. Le stesse aziende dovranno valutare bene l'impatto che tale decisione può avere sul proprio titolo: se è vero che il voto plurimo riduce la contendibilità, solo un dialogo costante e trasparente con il mercato può evitare i rischi di una riduzione della liquidità sui titoli. Piani industriali e prospettiva di crescita sono in genere la vera discriminante per le scelte degli investitori. Una delle critiche mosse contro questa architettura riguarda poi la possibilità per le imprese già quotate di modificare lo statuto a maggioranza semplice in assemblea straordinaria. Ebbene, anche in questo caso i timori appaiono eccessivi: non solo perchè tale possibilità ha una durata limitata (meno di un anno a partire da oggi), ma anche e soprattutto perchè l'investitore non perde il suo diritto a vendere le azioni prima dell'assemblea se la modifica statutaria non è di suo gradimento.

Non è forse questo il vero senso della libertà di scelta di investimento sul mercato? Ultima domanda: questa possibilità di cambiare lo statuto senza la maggioranza dei due terzi in assemblea è forse stata concepita per permettere allo Stato di vendere le azioni dei suoi gruppi controllati senza perderne il controllo? Forse sì. O forse poco importa. Primo perchè gli investitori sanno bene che a prescindere dal voto multiplo, alle aziende di Stato è riconosciuto un ruolo di interesse nazionale, rendendo sostanzialmente impossibile una scalata ostile. In un mercato in cui è già difficile scalare aziende private senza sollevare vespai politici e barricate ideologiche (vedi i casi di Telecom Italia agli spagnoli o di Parmalat ai francesi), figuriamoci chi mai tenterebbe di scalare l'Eni, la Finmeccanica o l'Enel. Il mercato sa bene, e non solo in Italia, che laddove è presente un interesse pubblico non c'è spazio per le scalate ostili.
In conclusione: le nuove regole non saranno certamente la panancea della nostra Piazza Finanziaria, ma certamente non le nuociono. E chi teme che possano servire per blindare il controllo delle banche, dimentica che le banche possono passare di mano solo con il gradimento di Bankitalia e mai in modo ostile: per comprarle, bisogna avere carte in regola e lanciare offerte amichevoli. Qui, il voto plurimo conta poco o nulla.

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