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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 01 agosto 2014 alle ore 07:32.

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Caro direttore, da quando ho assunto incarichi in consigli di amministrazione (Telecom prima ed Eni poi) mi sono sempre astenuto dal commentare fatti che riguardassero le società di cui ero consigliere. Intendo continuare a farlo.
Non posso, però, rimanere silente su decisioni del Parlamento che considero sbagliate, non tanto per Eni, ma per il Paese. Siccome queste decisioni possono avere un impatto anche su Eni, preferisco sollevarle con una lettera al direttore e non come opinionista, affinché sia visibile a tutti che in questo caso la mia opinione può essere influenzata dalla posizione che ricopro. Lascio ai lettori giudicare se il punto che sollevo è frutto di un conflitto di interessi o se è giustificato.

Nella versione al voto del Senato, la proposta di legge sul voto plurimo delle società quotate non solo assicura che nessun investitore degno di questo nome metta più piede in Italia, ma blocca un salutare ricambio ai vertici del potere economico in Italia.
Il decreto legge prevede che gli azionisti di società quotate, che detengono le azioni per almeno 24 mesi, godano di un diritto di voto plurimo. Si tratta di un modo surrettizio per violare la parità degli azionisti. Come nella fattoria degli animali di Orwell, tutti sono uguali, ma qualche d'uno è più uguale degli altri.
Questa decisione, seppure controversa, sarebbe accettabile se la scelta di introdurre il voto plurimo fosse lasciato solo ad imprese di nuova quotazione. Google quando si è quotata ha messo in chiaro che i diritti di voto non erano ugualmente distribuiti: la decisione se accettare questa sproporzione era però lasciata agli investitori che, al momento della quotazione, se ne assumevano il rischio (caveat emptor). D'altra parte il decreto (chiamato per la competitività ) era a mirato a favorire la quotazione di nuove imprese, non a favorire i gruppi di controllo delle società già quotate (iniziativa che mina la nostra competitività, non la favorisce).

L'introduzione del voto plurimo è più delicata per le società già quotate. Il rischio è che una minoranza abusi del suo potere di voto per imporre la sua volontà ad una maggioranza. Per limitare questo rischio (presente in qualsiasi cambio statutario) il codice civile impone che le riforme statutarie richiedano due terzi dei voti in assemblea. Ebbene un emendamento in via di approvazione al Senato viola questa norma, introducendo una deroga ad hoc che, per i prossimi 7 mesi, permette di introdurre il voto plurimo con una maggioranza semplice.
A prima vista sembrerebbe una legge per permettere allo Stato di introdurre il voto plurimo nelle imprese quotate controllate. In questo modo potrebbe vendere ulteriori quote senza il rischio di perdere il controllo.
Se così fosse si tratterebbe di una manovra miope ed inutile. Miope perché per incassare subito qualche miliardo, si minerebbe la credibilità del Paese. Se lo Stato cambia le leggi per favorire se stesso, come potrà mai uno straniero fidarsi del nostro Paese? Inutile, perché lo stato potrebbe facilmente scendere al 25% nelle sue partecipate senza alcun rischio di perdere il controllo.

In realtà, temo che l'obiettivo vero sia un altro, ancora peggiore: proteggere quello che resta del capitalismo di relazione, a cominciare dalle fondazioni bancarie per finire a Mediobanca. Sotto i colpi della crisi il nostro capitalismo di relazione si stava sfasciando. Finalmente ai vertici delle imprese cominciavano ad essere messe persone brave come Mario Greco di Generali, e non solo chi era gradito alle Fondazioni. Questa legge va in direzione contraria. Puntellando il capitalismo di relazione non solo blocca questo salutare ricambio, ma inverte il trend, rafforzando il potere del capitalismo di relazione. Altro che rottamazione, siamo alla mummificazione.

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