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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2014 alle ore 06:39.
L'ultima modifica è del 21 agosto 2014 alle ore 07:48.

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L'estate ha portato l'ennesima conferma che la ripresa economica è incerta ovunque. I dati europei sul prodotto interno lordo sono stati rivisti per l'ennesima volta al ribasso e hanno gettato nuovamente l'Italia nella recessione. Alcuni giorni fa un autorevole economista come Stanley Fischer, oggi vicepresidente della Federal Reserve, ha indicato i molti elementi per cui la crescita globale degli ultimi anni, non soltanto negli Stati Uniti, è stata, a suo dire, «deludente».

In queste circostanze non sorprende che i primi chiamati in causa siano i banchieri centrali: a essi viene richiesto o di ritardare l'abbandono delle politiche monetarie aggressive oppure, come nel caso della Banca centrale europea, di fare «tutto il possibile» per far ripartire l'economia, a cominciare da una politica decisa di Quantitative Easing sul modello americano oppure britannico.

Ma non può sorprendere neanche che ci siano molte perplessità intorno all'idea che una politica monetaria ancora più aggressiva di quella che abbiamo sperimentato, anche nell'eurozona, possa essere l'arma vincente o comunque lo stimolo sufficiente a far ripartire il circolo virtuoso della crescita.

Come testimonia il discorso di Stanley Fischer, ma anche l'ultima relazione della Banca dei regolamenti internazionali, quella che abbiamo ormai definito la Grande Recessione è il frutto dell'eccezionale accumulazione di debiti nel settore privato dei principali paesi e poi del settore pubblico, come effetto della crisi (l'Italia per non sbagliare si era portata avanti con i compiti superando allegramente il tetto dell'indebitamento pubblico fin dagli anni Novanta). I cicli finanziari, ammonisce la Bri, sono molto più lunghi di quelli economici perché l'assorbimento dell'eccesso di debito richiede tempo e frena i meccanismi tipici della ripresa: l'accumulazione di scorte, gli investimenti, l'aumento della produttività, che persino negli Stati Uniti continua a essere sorprendentemente bassa e deludente.

I policy makers si trovano di fronte a una realtà sconosciuta a questa generazione; i modelli econometrici si rivelano incapaci di fornire stime attendibili sul pil, il che significa che in qualche modo sovrastimano il prodotto potenziale, cioè che una parte del capitale ancora contabilizzato (a livello macro, ma anche nei bilanci delle imprese) ormai ha perso valore.
Non a caso Fischer ha ammonito sulla necessità di un maggior sforzo analitico per separare «gli aspetti ciclici da quelli strutturali, i temporanei, dai permanenti» e ha escluso un ripensamento sul graduale abbandono del Quantitative Easing da parte della Federal Reserve.

In questa prospettiva, l'appuntamento fondamentale per la Banca centrale europea è l'accertamento delle condizioni effettive delle banche (e di riflesso della sostenibilità del debito privato che esse hanno all'attivo) che è ormai in dirittura d'arrivo. Certo, meglio sarebbe stato averlo fatto subito, all'inizio della crisi, come questo giornale aveva ripetutamente richiesto. Ma allora la lettera di critica va spedita a Bruxelles, non a Francoforte. O, meglio, alle capitali - Berlino in testa - che si illusero che le crisi bancarie, come i panni sporchi si devono lavare soltanto in famiglia, cioè all'interno dei confini e degli interessi nazionali. Che spesso sono tutt'altro che limpidi e godono di ampie protezioni, come dimostra il caso del Banco Espirito Santo, che ha rivelato perdite per miliardi di euro proprio alla vigilia delle valutazioni della Banca centrale europea.

Insomma, se il credit crunch è stato così prolungato e severo non dipende da una politica monetaria troppo timida, ma dal fatto che la crisi ha fortemente modificato i meccanismi di trasmissione della politica monetaria, influendo negativamente sui comportamenti della domanda da parte delle imprese e dell'offerta da parte delle banche. Ciò significa che la banca centrale non può fare «tutto il necessario» per far ripartire il credito e l'economia. Può farlo per spezzare le aspettative di una rottura dell'euro, come è stato fatto con grande successo a partire dall'estate del 2012. Ma persino nei tempi felici della politica monetaria degli anni Cinquanta e Sessanta si diceva a proposito degli effetti sul ciclo economico che «non si può spingere con una stringa».

Non a caso, Mario Draghi nella conferenza stampa del 7 agosto ha puntato l'indice sulle riforme strutturali che ancora devono essere realizzate e lo ha fatto prima in termini generali, facendo intravvedere un percorso che parte da Bruxelles, anziché dai governi nazionali. Testualmente: «È tempo di iniziare a condividere sovranità anche in questo campo». Poi con riferimento specifico all'Italia ha messo in evidenza che la crescita negativa è ancora dovuta al dato deludente degli investimenti privati, che non ripartono nonostante il livello eccezionalmente basso dei tassi di interesse. Dunque, bisogna intervenire sui fattori che scoraggiano l'investimento in Italia, che sono poi gli stessi che ci mettono in coda alle classifiche internazionali sul «fare impresa».

Occorre dunque ridare efficienza al mercato del lavoro, ripristinare la legalità, contenere una burocrazia soffocante. Ma occorre anche consolidare la struttura finanziaria delle nostre imprese, ormai troppo indebitate per poter basare sul debito il futuro ciclo di investimenti.

«Vasto programma», avrebbe detto Charles de Gaulle, ma è semplicemente la lista dei peccati di omissione dell'Italia, così come di tanti altri paesi europei degli ultimi dieci anni. È tempo di rimediare, sapendo che queste riforme possono trovare un terreno fertile nella politica monetaria che ha saputo usare strumenti eccezionali un tempo impensabili, ma che non può coprire tutto e tutti.

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