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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2014 alle ore 07:43.

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L'America è davvero a rischio bolle? «Meglio affrontare il rischio bolle che essere in bolletta a fine mese», potrebbe ribattere un investitore americano che vede salire ogni giorno di più la borsa di Wall Street, trainata dalla fiducia dei responsabili degli acquisti al top da quattro anni e da un'accomodante politica monetaria a un ipotetico interlocutore europeo in cerca di pagliuzze nell'occhio del vicino transatlantico. Di fronte a un'Europa con crescita asfittica meglio avere un crescita vigorosa, con qualche rischio di «irrazionale esuberanza» dei mercati come ebbe a dire tardivamente Alan Greenspan.

Ma fatta la doverosa premessa le bolle americane cominciano a essere - sette anni dopo l'esplosione di quella sui mutui immobiliari subprime che tracimò nella Grande recessione mondiale - davvero troppe. C'è quella dei prestiti a creditori spesso poco affidabili sulle automobili (905 miliardi di dollari di debito complessivo), quella dei prestiti d'onore agli studenti universitari (1.100 miliardi di dollari con tassi di mancata restituzione che viaggiano all'11%), quella sui titoli biotech e quella sui social network. Quest'ultime sono state messe in evidenza dal presidente della Federal Reserve, Janet Yellen in persona nella testimonianza davanti al Congresso quando ha parlato di valutazioni «piuttosto stiracchiate», «substantially stretched», riferendosi ai prezzi di alcuni titoli, anzitutto social media e biotech. Se l'avvertimento arriva da un presidente della Fed che delle politiche espansive a sostegno della crescita è stato un sostenitore, allora qualcosa di vero c'è. (V.D.R.)

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