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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2014 alle ore 07:27.
L'ultima modifica è del 27 agosto 2014 alle ore 08:36.

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La collaborazione militare tra Washington e Damasco per colpire l'Isis in Siria è una scelta obbligata e il riallineamento tattico tra Siria e Usa segna un successo per il dittatore damasceno. Difficile dimenticare che l'anno scorso Barack Obama aveva inviato le sue portaerei nel Mediterraneo per bombardare basi e palazzi del potere di Bashar el Assad, sospettato di aver impiegato il gas contro i suoi cittadini.

L'ipotesi sfumò per la decisa opposizione di Putin. Ora l'Amministrazione americana insiste nel sottolineare che non è in corso nessuna riabilitazione di Assad, la cui feroce repressione delle pacifiche proteste popolari fu la principale causa responsabile dell'aver trasformato la Primavera di Damasco in quella spietata guerra civile in cui l'Isis è riuscito a infiltrarsi. Il folle progetto del Califfato ha fuso e travolto le guerre civili irachena e siriana, mutandole di segno, trasformandole in jihad e fitna, guerre sante maledette per la purezza della fede.

Ora per l'America e per l'Occidente più in generale si pone il dilemma di come evitare di finire coinvolti nella "narrativa" di una guerra settaria, alleati dei curdi, degli alauiti, degli sciiti contro i sunniti: è un problema delicato, se si vuole evitare che il necessario intervento militare (diretto e indiretto) non finisca per alimentare il selvaggio progetto di odio di al Bagdadi. Ed è un problema che si ripropone a maggior ragione in chiave strategica di fronte alla necessità di intavolare un dialogo anche con la Repubblica Islamica dell'Iran. Difficile immaginare che il Levante e il Golfo trovino pace se l'equilibrio regionale dovrà continuare a essere cercato fingendo che Teheran non ne costituisca un attore chiave. Improbabile che la stessa disponibilità siriana ai raid americani sia stata offerta senza la preventiva consultazione con l'Iran. Coinvolgere l'Iran è decisivo per sconfiggere l'Isis, stabilizzare l'Iraq e realizzare un nuovo ordine regionale, che costituisca anche un argine alle pretese egemoniche saudite e alle ambizioni della Turchia.

L'Iran, sanzionato dall'Occidente per il suo opaco programma nucleare, è il nostro alleato oggettivo nell'area, più della Turchia e dell'Arabia Saudita e della gran parte delle monarchie conservatrici del Golfo, che hanno alimentato, finanziato e armato la politica settaria che ha trasformato la diversità tra sciiti e sunniti, trasformandola in una linea infuocata di faglia. Ora a Riad e Doha temono che il delirio fondamentalista possa costituire una minaccia anche per i loro troni, come accadde con al Qaeda, ma su scala maggiore. Ma è ingenuo immaginare che ciò possa portare emiri, principi, sceicchi e re ad accettare il fallimento di una politica che dal 1981 (guerra Iraq-Iran) ha provato in tutti i modi a far crollare la Repubblica degli ayatollah. Il rischio è che si ripeta quanto accaduto in Europa nel luglio 1914, quando tutti i principali protagonisti dell'incombente tragedia non desideravano un conflitto generale, «ma oltre a questo comune interesse, ne avevano anche altri particolari, fra loro contrastanti», erano «sonnambuli», nell'efficace immagine di Christopher Clark, «apparentemente vigili, ma non in grado di vedere».

Di fronte a questa nuova fase fluida degli allineamenti mediorientali, non sono solo i sauditi a rischiare di restare spiazzati, ma anche gli israeliani, che non possono certo vedere di buon grado la prospettiva di un riavvicinamento tra Washington e Damasco (oggi) e tra Washington e Tehran (domani). L'equazione Hamas=ISIS è stata la debole lettura alternativa proposta, ma non ha convinto, al punto da spingere Israele a siglare una tregua con Hamas, per non restare isolata. Come per i sauditi, anche per Israele la riabilitazione di Teheran rappresenta un incubo e un fallimento; ma quello che gli strateghi israeliani si chiedono oggi è semplice: che cosa può offrire Israele di utile a combattere l'Isis? La risposta è tutt'altro che scontata.

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