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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2014 alle ore 06:38.

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Mentre cerca di dotarsi di una compiuta strategia (per ora non precisamente pervenuta), mentre decide se e come accettare, magari senza ostentarla, la collaborazione della Siria di Bashar el Assad (come suggerisce il presidente del Council on Foreign Relations, Richard Haass, dalle colonne del Financial Times) per debellare l'Isis, definito dal presidente americano un «cancro da sradicare», l'Amministrazione Obama, per concentrare gli sforzi contro il pericolo più grave e urgente, ha bisogno di un po' di calma nel resto del Medio Oriente (e la calma è bene alquanto raro in questa area del mondo, vedi pure la Libia) come nelle altre zone di crisi. Per questa ragione sono benvenute le due particolari e differenti tregue - è ancora tutto da vedere se e quanto solide e durature - indirettamente provocate da quel grande nemico (comune?) capace di decapitare un giornalista come James Foley con tanto di video o di reclutare perfino jihadisti bambini in un contesto di esecuzioni pubbliche e feroci.
La diplomazia americana sarà dunque certo grata all'opera di mediazione del generale-presidente egiziano Al Sisi per aver coltivato un cessate il fuoco tra Israele e Hamas, anche se sa che finché il gruppo armato palestinese festeggerà una tregua come una vittoria la pace vera sarà lontana. Così come, nonostante tutto, le fattive speranze sono ora riposte nel dialogo tra Mosca e Kiev con sostegno europeo, dopo quella stretta di mano tra il presidente russo Vladimir Putin e l'omologo ucraino Petro Poroshenko. Non sono due crisi risolte, ma ora c'è un pericolo più grande.

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