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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2014 alle ore 09:55.
L'ultima modifica è del 30 agosto 2014 alle ore 10:08.

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Un numero sempre maggiore di aziende americane sta cercando di spostare il proprio quartier generale in Europa. Queste cosiddette "inversioni" ridurrebbero la pressione fiscale permettendo di eludere la tassa sul reddito d'impresa prevista dagli Usa e così sfavorevole. Allora che cosa dovrebbero fare i politici americani?
L'Amministrazione del presidente Obama sta cercando di bloccare questa inversione attraverso misure amministrative che potrebbero non reggere nei tribunali americani.

Sarebbe molto meglio definire un piano legislativo bipartisan mirato a far passare la tentazione di fuga. Un piano che, se fosse allettante per le multinazionali americane, potrebbe indurre un cambiamento nell'occupazione e nella produzione del Paese e portare un gettito fiscale più alto.
Con l'attuale legislazione in vigore, gli utili delle aziende americane vengono tassati del 35 per cento, la percentuale più alta tra i Paesi Ocse dove la media è del 25. Questa imposta viene applicata sia agli utili guadagnati negli Stati Uniti sia a quelli rimpatriati dalle consociate straniere.
Per esempio, la consociata di un'azienda americana che opera in Irlanda paga l'aliquota irlandese di 12,5 per cento sugli utili guadagnati in quel Paese. Se rimpatria gli utili già tassati, paga un'imposta del 22,5 per cento (la differenza fra il 35% dell'aliquota Usa e il 12,5% di quella già pagata al governo irlandese). Ma se reinveste gli utili in Irlanda o in qualsiasi altro Paese, non dovrà pagare altre tasse.

Non c'è da stupirsi che le aziende americane preferiscano lasciare quegli utili all'estero, sia sotto forma di strumenti finanziari sia investendo in nuove o già esistenti consociate. Di conseguenza, le aziende americane adesso detengono all'estero qualcosa come 2 trilioni di dollari di utili che non sono mai stati tassati dal fisco Usa.
Tutti gli altri Paesi Ocse trattano gli utili delle consociate straniere in modo molto diverso, rifacendosi al cosiddetto principio della territorialità per tassare i guadagni stranieri. Per esempio, un'azienda francese che investe in Irlanda paga il 12,5% come tassa societaria irlandese, ma poi è libera di rimpatriare gli utili già tassati con un'imposta inferiore al 5 per cento.
L'attuale sistema fiscale americano è controproducente per l'economia per diverse ragioni. L'imposta extra per le aziende americane che rimpatriano gli utili aumenta il costo del capitale, riducendo così la loro competitività sui mercati internazionali. Le aziende straniere possono anche superare la loro controparte americana acquisendo nuove industrie high-tech in altri Paesi. E quando un'azienda straniera acquisisce un'azienda americana, versa l'imposta americana sugli utili guadagnati negli Usa, ma non su quelli guadagnati dalle altre consociate straniere di quella azienda, facendo così diminuire l'imposta societaria complessiva.

Passare a un sistema fiscale basato sul principio della territorialità eliminerebbe gli svantaggi delle multinazionali americane e le spingerebbe a reinvestire i loro utili esteri in patria, incrementando utili e occupazione. Visto che attualmente solo una piccola parte di utili esteri viene rimpatriata, il governo Usa perderebbe pochissimo gettito fiscale passando a un sistema basato sulla territorialità: pochi anni fa, il dipartimento del Tesoro americano aveva stimato che il passaggio avrebbe ridotto il gettito prodotto dalle imprese di soli 130 miliardi di dollari in dieci anni.
Inoltre sarebbe auspicabile ridurre gradualmente la pressione fiscale sulle aziende Usa, avvicinandola alla media Ocse del 25 per cento. Anche questo incoraggerebbe un maggiore rimpatrio dei guadagni realizzati oltreoceano.

Visto che le aziende Usa dispongono di ingenti utili all'estero che non sono mai stati assoggettati al fisco americano, la transizione potrebbe essere condotta in modo da aumentare il reddito netto. In cambio del passaggio a un sistema basato sulla territorialità e dell'abbattimento fiscale, il governo federale potrebbe applicare a tutti gli ultimi guadagni non tassati un'aliquota bassa da versare in dieci anni. Le aziende sarebbero così libere di rimpatriare i guadagni preesistenti senza pagare altre tasse e potrebbero rimpatriare quelli futuri versando un basso 5 per cento, come con gli altri Paesi.
Un'imposta del 10% sui guadagni esteri accumulati frutterebbe circa 200 miliardi di dollari in dieci anni, un'imposta del 15% ne frutterebbe 300. La scelta dell'aliquota farebbe parte del negoziato per ridurre la tassa societaria complessiva.
Per esempio, con una tassa del 10%, un'azienda con 500 milioni di dollari di guadagni accumulati oltreoceano dovrebbe versare 50 milioni di dollari in dieci anni; potrebbe rimpatriare 500 milioni di dollari in qualsiasi momento senza versare altre tasse. Il rimpatrio di qualsiasi guadagno che superi 500 miliardi di dollari verrebbe assoggettato a un'imposta del 5 per cento.

Il passaggio a un sistema basato sulla territorialità e a una tassa societaria inferiore sarebbe molto allettante per le multinazionali americane, anche se dovessero pagare una tassa del 10-15% sui guadagni già accumulati. Se Obama sta cercando un'opportunità per negoziare un accordo bipartisan che rafforzerebbe l'economia Usa e aumenterebbe l'occupazione, dovrebbe prendere in seria considerazione un pacchetto di riforme del genere.
(Traduzione di Francesca Novajra)
© Project Syndicate, 2014

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