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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2014 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 07 settembre 2014 alle ore 09:06.

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S e non si riuscirà a trovare rapidamente una soluzione negoziale alla crisi russo-ucraina, le ritorsioni commerciali del Cremlino alle sanzioni dell'Occidente peggioreranno lo stato di salute dell'Eurozona, già esposta al rischio di una spirale fra recessione e deflazione. Per il momento è infatti la Comunità europea a subire l'impatto più pesante della "guerra commerciale" in corso con Mosca.

E fra i paesi già fortemente danneggiati figura anche l'Italia. Del resto, per il nostro Paese, carente di risorse energetiche e con un'economia trainata dalle esportazioni, i rapporti d'affari con la Russia hanno rivestito da sempre una particolare importanza.

Così è avvenuto fin dagli esordi del regime sovietico, quando nel 1921 si costituì un "Comitato per le iniziative italo-russe", in cui figuravano da un lato esponenti di spicco del mondo finanziario e industriale (come Giovanni Agnelli, Alberto Pirelli, Ettore Conti, Franco Marinotti) e rappresentanti di rilievo del sindacalismo e del socialismo riformista (come Ludovico D'Aragona, Bruno Buozzi, Filippo Turati e Oddino Morgari). Perciò, una missione commerciale russa, disposta da Lenin e guidata da Vaclav Vorovskij, aveva siglato in dicembre a Roma un'intesa per la ripresa degli scambi, dato che Mosca riteneva indispensabile una partecipazione delle nostre principali imprese alla ricostruzione della propria economia e che esse fossero a loro volta interessate a liberarsi dal «cambio esoso dell'America per l'acquisto di materie prime».

Le cose non erano cambiate dopo l'avvento del fascismo. Anzi, il governo aveva accordato agevolazioni e garanzie pubbliche alle aziende interessate al mercato sovietico. E, dopo la crisi del 1929, la Fiat s'era aggiudicata, tramite la Riv, due grossi progetti per la realizzazione nell'Urss di altrettanti complessi industriali. In quell'occasione Mussolini, con i suoi ministri che chiedevano il rilascio dalle imprese esportatrici di una fidejussione bancaria, aveva tagliato corto: «I Soviet hanno sempre pagato, è inutile imbottirsi di garanzie suppletive». Fu questo il prologo del trattato commerciale del gennaio 1931, a cui avrebbero fatto seguito ulteriori accordi nell'ambito delle politiche di scambio bilanciate. Intanto, nel 1935, il Cremlino aveva autorizzato un viaggio propagandistico lungo la propria rete ferroviaria della "Littorina", quale modello esemplare di un treno ad alta velocità.

Sarebbero poi passati, dopo la seconda guerra mondiale, quindici anni prima che, nel clima di incipiente distensione fra Est e Ovest, la visita del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi a Mosca creasse le premesse per un accordo destinato a destare scalpore: quello con cui l'Eni si assicurò l'importazione di un quantitativo di greggio pari a un quinto del fabbisogno nazionale, a prezzi inferiori a quelli delle "Sette Sorelle", in cambio della fornitura di grosse tubature d'acciaio della Finsider. Due anni dopo, nel maggio 1962, vennero aperte le porte a Mosca a una mostra dell'industria italiana, durante la quale l'incontro di Valletta con Kruscev appose il suggello all'accordo per la realizzazione da parte della Fiat dello stabilimento automobilistico di Togliattigrad, al cui allestimento parteciparono numerose aziende italiane per vari materiali e impianti.

Se il petrolio e la meccanica hanno costituito le leve principali sino al 1991 dei nostri rapporti di import-export con l'Unione Sovietica, negli ultimi vent'anni il movimento commerciale con la Federazione russa s'è arricchito man mano di numerose altre voci. Mentre abbiamo intensificato gli acquisti e gli investimenti nel comparto energetico, abbiamo collocato sempre più calzature e articoli d'abbigliamento (che oggi figurano in testa, per il loro valore, alle nostre esportazioni in Russia), e così pure autovetture, macchinari d'ogni specie, mobili e arredi, oltre ad apparecchi aerei e veicoli spaziali.
Ma, per quanto i ricavi dell'agroalimentare non siano parimenti consistenti, i danni che, a causa del bando imposto da Mosca, sta accusando questo settore, in quanto composto per lo più da Pmi, risultano invece ingenti. E sono tanto più preoccupanti perché anche i prodotti (fra carni, frutta, verdura e latticini) di altri Paesi, bloccati alle frontiere russe, finiranno per riversarsi sulle piazze dell'Unione europea, determinando una caduta di prezzi e posti di lavoro.

C'è perciò da augurarsi che si giunga a porre fine per via politica e diplomatica a un'escalation della controversia russo-ucraina. Nel contempo è sempre più urgente la conclusione del negoziato per un accordo di libero scambio fra l'Europa e gli Stati Uniti. Ne trarrebbe vantaggi concreti anche l'Italia, dato che negli ultimi mesi l'America è divenuta il nostro primo mercato di crescita potenziale: sia per vari prodotti in metallo, gomma e materie plastiche; sia per indumenti e calzature, cibi e bevande.

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