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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2014 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 08 settembre 2014 alle ore 06:52.

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Oggi la velocità è un valore. Nel mondo globale della società hi-tech, sempre connessa in nanosecondi, bisogna fare in fretta. L'Italia deve fare in fretta. Lo afferma e lo persegue il governo rottamatore che misura in giorni la fattibilità delle sue strategie di rinnovamento. E fa bene a farlo, perché per non morire di inedia e consunzione, il Paese ha bisogno di una forte accelerazione nel cambiamento. Ma la velocità non è un valore universale applicabile a ogni campo dell'essere individuale e sociale. «Il grado di velocità è direttamente proporzionale all'intensità dell'oblio», avverte Milan Kundera in "La lentezza".
Slow food è un valore, non una moda. Consente di restituire al cibo, nutrimento della vita, la sua valenza di benessere e di piacere, di ricerca attenta degli ingredienti naturali, dell'abilità di combinarli, della sapienza di gustarli nel rispetto dei ritmi del corpo e dell'anima. Tutto ciò vale anche e particolarmente per la conoscenza.

Pensiamo al nostro sistema universitario. La qualità sembra essere misurata in termini di tempo impiegato per laurearsi, piuttosto che nello spessore delle conoscenze acquisite e finisce per misurarsi in parametri quantitativi: quanti corsi, quanti esami, quanti crediti, quante pubblicazioni, quante citazioni nelle riviste internazionali. La riforma del cosiddetto "3+2" ha favorito questa deriva. Complice una miopia inconsapevole dei docenti, ha portato a una moltiplicazione di discipline, inserite in slot temporali minimali, e di corsi di laurea, spesso totalmente scollegati da esigenze del mondo del lavoro. Non ha certo risolto i problemi endemici dell'università italiana. Si è di fronte a un degrado della qualità dei nostri laureati, che, a parte punte di eccellenza comunque presenti, hanno una preparazione culturale debole e sempre meno competitiva. Non sono stati velocizzati i tempi per il conseguimento della laurea Non è stato incrementato il numero di laureati, nonostante si mettano nel conto anche i laureati triennali.

Le nuove norme ministeriali, dalla legge Gelmini in poi, hanno creato un intreccio di incombenze burocratiche che tolgono molto del tempo che i docenti dovrebbero dedicare alla didattica e alla ricerca. Anche lo strumento della valutazione, condivisibile in linea di principio, è stato concepito burocraticamente, costringendo i docenti ad attività aggiuntive con scadenze implacabili, finalizzate all'implementazione di procedure che poco hanno a che fare con la conoscenza e la cultura. È sì il momento di essere veloci, ma per fare in fretta a rinnovare l'università affinché torni a essere il luogo in cui si pensa e si studia.
Penso per questo a una slow university. Un'università che eviti la frammentazione, perché la conoscenza chiede una visione di complessità e un approccio tendenzialmente olistico. Che sopprima riunioni burocratiche, documenti superflui da riempire, utili solo a ingombrare la vita accademica dei docenti. Che elimini corsi brevi in parallelo, prove parcellizzate di esame, destinati a indurre negli studenti una memorizzazione solo superficiale, soggetta a svanire rapidamente e incapace di favorire la connessione tra le discipline. Insomma, un'università che consenta ai docenti di recuperare il piacere della conoscenza e della trasmissione del sapere e che restituisca agli studenti spazio e tempo per la riflessione e il gusto dell'apprendimento critico.

È questa università, l'università della qualità, dello spessore culturale, del pensiero innovativo, che serve al Paese per tornare a crescere, per recuperare competitività, per reinventare il proprio storico ruolo di culla di cultura e creatività.
D'altro canto, è l'università che serve anche per accompagnare il Paese nelle nuove, possibili frontiere dello sviluppo, come quella rappresentata dall'interessante fenomeno mondiale di back shoring, il ritorno delle fabbriche nei tradizionali Paesi manifatturieri. In questo processo l'Italia si pone al secondo posto, dopo gli Usa e davanti a Germania e Gran Bretagna. Si è compreso che la competizione si fa sulla qualità del prodotto, non sui bassi prezzi, e la buona manifattura ha bisogno di solida cultura, esperienza, capitale umano eccellente. Quindi è un'università sapiente, capace di fare cultura solida, volàno di innovazione creativa, che deve stare al fianco delle pregiate industrie vecchie e nuove del Made in Italy, fiore all'occhiello del nostro Paese, ma anche concreta opportunità per riavviare un trend di crescita stabile.

Direttore del Diet e delegato per i rapporti con le Pmi Università di Roma La Sapienza

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