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Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2014 alle ore 09:10.
L'ultima modifica è del 13 settembre 2014 alle ore 10:57.

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I mercati finanziari in pre-allarme, la recessione economica, il pericolo default e il Padre Nostro recitato in salsa chavista. «Non ci lasciare cadere nella tentazione del capitalismo e liberaci dal male dell'oligarchia, perché nostra è la patria, la pace e la vita per i secoli dei secoli. Amen, viva Chavez». Il Venezuela di Nicolas Maduro annaspa e per ora non si intravede una exit strategy alla crisi. Un Paese petrolifero che incassa 100 miliardi di dollari dall'export di greggio potrebbe quindi cadere in default: in ottobre scadono 6 miliardi di titoli di Stato e molti analisti temono che il Governo non abbia i soldi per pagare gli interessi.

Un primo chiaro segnale di allarme deriva dall'ipotesi di vendere Citgo, la filiale americana di Pdvsa, il colosso energetico del Paese. Citgo è uno dei gioielli di famiglia, costituito da tre raffinerie e 6 mila stazioni di rifornimento. Un'ipotesi, quella della dismissione, tutt'altro che remota, soprattutto dopo la rimozione del ministro dell'Energia, Rafael Ramirez, in carica negli ultimi dieci anni. Lo spettro di un default allerta tutti, ma soprattutto la popolazione: il Venezuela - va ricordato - importa quasi tutto.

La crisi affonda le radici nel modello economico di Chavez che non ha saputo costituire una struttura economica in grado di affiancare la rendita petrolifera. Maduro eredita tutti i "buchi" del modello, ma non il carisma e l'empatia di Chavez. Il quadro è già drammatico: inflazione al 63%, difficile reperibilità di generi alimentari.

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