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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2014 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 17 settembre 2014 alle ore 09:02.

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KIRKWALL (ISOLE ORCADI) - «Vuole quello norvegese o quello scozzese? Il primo è di capra, il secondo sciacquato nel whisky». Hjetost o Campbelton? Il cameriere, all'ora del dessert, spera nella scelta nordica. Tanti come lui, fra le coste cesellate dallo sbatter d'onda di Orcadi e Shetland, guardano a Est, la Scandinavia, e disdegnano il Sud, la Scozia. Bergen, per intenderci, a tratti è più vicino di Aberdeen da dove si è sgolato il premier britannico David Cameron nell'ultimo appello lanciato a una nazione in fuga dal Regno Unito.

Sei secoli e mezzo di dominazione vichinga hanno lasciato nomi norvegesi e una bandiera, quella di Oslo che, appena corretta da una riga gialla, è il vessillo ufficiale delle Orcadi. Nessuna somiglianza, nella foggia e nei colori, con la croce di Sant'Andrea che sventola su Holyrod, il parlamento di Edimburgo. «La festa più importante nelle nostre terre? È il 17 maggio - spiega il leader del consiglio delle isole, Steven Heddle - giorno dell'indipendenza norvegese». Scuole chiuse, banche sbarrate per ricevere la delegazione nordica, la stessa che il giorno di Santa Lucia porterà l'abete da piazzare al centro di Kirkwall. La realtà di queste isole bagnate dal whisky è tutta qui. La geografia le ha collocate all'incrocio della storia e ora le costringe a scegliere se divenire parte di una nuova patria scozzese o continuare a vivere a margini del Regno, sognando, magari, la Norvegia. Non stanno né di qua né di là, perse, come sono, fra Mare del Nord e Atlantico, affaccendate, come sono, a trafficare con quel greggio off shore che le ha rese ricche (le Shetland) o appena benestanti (le Orcadi). Dopo aver avuto il passaporto scandinavo e da tre secoli quello britannico, domani devono decidere se optare per quello scozzese. Il cuore non batte con troppa lena, prevale il pragmatismo, nella consapevolezza che comunque vada, quassù, hanno già vinto.

Lo studio di Steven Heddle è tappezzato di fogli fitti fitti e segnati dall'evidenziatore. Quelle sottolineate in giallo sono le promesse dello Scottish National Party, quelli in azzurro gli impegni delle forze politiche unioniste. Ieri Londra ha fatto stampare sulla prima pagina del Daily Record il decalogo della nuova autonomia che David Cameron, Ed Miliband e Nick Clegg, i tre leader delle tre forze di Westminster, garantiscono, cominciando dalla tutela del servizio sanitario nazionale scottish style. Nessuno interferirà sul National health service di Edimburgo, quindi. Difficile dire se potrà bastare per convincere Lowlands e Highlands a votare "No", ma per questi struggenti scogli del Nord ci vuole altro. «Sono soddisfatto sia dell'offerta a firma Snp, sia dell'offerta delle forze tradizionali», precisa Steven Heddle lasciando intendere che è già gara fra chi mollerà di più. Chiedete il diritto sullo sfruttamento del fondale marino per le energie rinnovabili? Vi sarà dato. Volete tariffe agevolate per aerei e traghetti? Li avrete. Desiderate collegamenti in banda larga fino all'ultimo pertugio del più insignificante sito dell'età della pietra (Orkney è palestra per gli archeologi di tutto il mondo, ndr)? Arriverà.

Piovono "pagherò" sulle settantamila anime che compongono il collegio di Orcadi, Shetland e Western Isles, ovvero la stragrande maggioranza delle isole di Scozia, per conquistare un cuore che non batte per Westminster, ma nemmeno palpita al pensiero di Braveheart. «A Londra non ci capiscono, a Edimburgo ci odiano. Una volta qui da noi si diceva così». Liam Mac Arthur, deputato locale al Parlamento scozzese per conto dei LiberalDemocratici, è convinto che vincerà il "No" almeno in questo suo collegio. «La verità è che essere periferici impone di non essere piccoli per evitare d'essere meno influenti. Qui ci fu molto scetticismo anche in occasione del dibattito sull'autonomia. La capacità di negoziare a livello europeo è garantita da un Paese più grande...». Inutile dirgli che David Cameron rischia di portare il Regno tutto fuori dall'Unione. Lo sa. E abbozza. «La nostra economia è fatta di agricoltura e pesca. Seguono, poi, distillerie e birrerie, oltre al petrolio. Tutte cose che si vendono nel resto del Regno...». Come dire: cosa facciamo? Alziamo davvero un confine sulla linea del Vallo? Gli agricoltori, conservatori per tradizione, fanno le barricate secondo i rumors che scuotono la vigilia. «Uno di noi che vota per l'indipendenza è come un tacchino che sostiene il Natale», ha dichiarato di recente l'allevatore Liam Muir, scolpendo in una metafora la realtà che si avverte fra le praterie pettinate che circondano Kirkwall. Qui la vita è già abbastanza dura con quattro ore di luce al giorno per cinque mesi l'anno, collegamenti sincopati al ritmo del vento e dei ruggenti del mare, per dedicare troppo tempo alla politica. Andranno dove li porta la convenienza anche perché il cuore degli scozzesi, isolani e non, David Cameron non sa proprio come riscaldarlo. «Le pare normale che abbia mobilitato David Beckham per promuovere l'Unione? David Beckham è un calciatore inglese, anzi, di Londra».
«Peggio, di Londra», s'è trattenuta dal dire Moraig Macinnes, poetessa delle Orcadi che usa l'antico dialetto norvegese per comporre i suoi versi. È proprio Londra, paradossalmente, l'alleato più forte dei nazionalisti scozzesi. La Grande Metropoli che tutto ingoia e tutto produce, che detta la politica ai governanti, che assorbe risorse infinite, che si fa in ultima istanza prototipo di una società sotto il segno della concorrenza estrema e del massimo profitto, è antagonista al modello sociale inclusivo che la Scozia continua a cullare. Rischia di nascere anche per questo la piccola patria scozzese, innescando un domino che si riverbererà in tutto il Regno, fino a scuotere questi scogli del settentrione estremo, fatalmente attratti dalla loro storia e da un modello sociale perduto. Quello scandinavo, ovviamente.

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