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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2014 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 18 settembre 2014 alle ore 16:43.

Gli stessi handicap che scoraggiano gli stranieri ostacolano ovviamente anche le imprese italiane. «La multinazionale si localizza dove è più conveniente. Se le caratteristiche locali non la favoriscono, non viene. Ma le sue esigenze sono le stesse delle imprese locali. Quindi o si creano condizioni per lo sviluppo - per l'una o per l'altra - oppure ci si rinuncia. Sia per l'una che per l'altra . Non c'è via di mezzo. E negli ultimi due decenni le condizioni l'Italia non le ha sapute creare», spiega Roberto Basile, professore di Economia alla Seconda Università di Napoli che da dieci anni analizza i flussi di Investimenti diretti esteri.

Il suo primo studio, pubblicato nel 2005 assieme ai colleghi Luigi Benfratello e Davide Castellani, ha appurato che «le regioni italiane soffrono di un duplice svantaggio: hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti per gli investitori stranieri e attraggono meno Ide rispetto ad altre regioni europee con caratteristiche simili. Tale gap, quantificato nel 40% in meno, è stato ricondotto ad alcune caratteristiche nazionali».
Tra i fattori che alimentano questo gap lo studio segnala l'inefficienza dell'apparato burocratico e del sistema di protezione dei diritti di proprietà, l'elevata rigidità del mercato del lavoro, un farraginoso sistema della giustizia civile e della protezione dei diritti sanciti dai contratti, l'adozione di meccanismi informali di decisione e la scarsa qualità dell'educazione terziaria. Conclusione: «Il sistema-Paese deprime ulteriormente l'attrattività potenziale delle regioni italiane… A parità di caratteristiche osservabili, le regioni italiane sono insomma meno attraenti di regioni con caratteristiche simili collocate in contesti istituzionali diversi… Il che conferma che il basso livello di Ide in Italia sia da attribuire per lo più a fattori istituzionali nazionali».

In un secondo studio di quattro anni dopo, gli stessi autori hanno appurato che il gap è addirittura peggiorato, arrivando a una punta del 75% nel caso degli investimenti in attività manifatturiere. Da allora, dice sconsolato il professor Basile al Sole 24 Ore, «le cose possono essere solo peggiorate, perché non si è fatto nulla per cambiare e migliorare la posizione competitiva dell'Italia».
Secondo Basile la situazione non è ancora irrimediabile. E le riforme programmate dal governo Renzi vanno nella direzione giusta. Se realizzate potrebbero dunque favorire un significativo recupero: «Soltanto portando il numero di procedure necessarie a tutelare i diritti contrattuali al valore medio europeo, per esempio, l'Italia registrerebbe un aumento del tasso di attrattività pari a circa il 60%», dice il professore.
L'economista di Banca d'Italia Stefano Federico concorda: «L'effetto di una migliore qualità istituzionale non sarebbe trascurabile. E se l'Italia si allineasse alle migliori pratiche dell'Eurozona, i flussi di Investimento esteri diretti ne guadagnerebbero in misura significativa».

Ma il tempo stringe. «Il mondo del business internazionale ha apprezzato l'avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, vedendolo come una svolta non solo generazionale», ci dice Piccoli. «Ma non bisogna illudersi che gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di investitori internazionali indichino una maggiore propensione a puntare sul nostro Paese. Perché gli investimenti finanziari oggi entrano e domani escono. Quello che invece serve è l'investitore che ha fiducia nel Paese e vi mette radici creando posti di lavoro. Questo continua a mancare. E la finestra di opportunità, come si dice in inglese, non rimarrà aperta a lungo».

cgatti@ilsole24ore.us

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