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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2014 alle ore 08:16.

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Ultima in ordine di tempo è apparsa la graduatoria delle università del mondo stilata da QS (Quacquarelli Symonds). I risultati non si discostano molto da quelli pubblicati in agosto dall'Arwu (ranking di Shanghai). Alcune università italiane - più o meno sempre le stesse - si piazzano intorno alla 200° posto.
Invariabilmente, la pubblicazione di questi ranking genera intense fibrillazioni nel mondo accademico. C'è chi vede il posizionamento delle nostre università come una misura esterna della fragilità del nostro sistema universitario e c'è chi invece ne vede una misura della nostra "peculiarità".
C'è chi trova consolazione nel "nonostante tutto" (poche risorse, molti studenti, pochi docenti eccetera) e chi si esercita nel "fuoco amico" preoccupandosi più di distanziarsi dagli altri in fondo alla fila che di guadagnare posizioni verso la testa.
C'è chi si trincera dietro al "nondum matura est..." e chi, non a torto, rifiuta il dato perché a-scientifico. È stato anche coniato un termine ad hoc - "rankitismo" - per raccogliere la fenomenologia delle reazioni alla pubblicazione di queste classifiche. Certo è che i "ranking" costituiscono un tema giornalistico appetitoso.
Proviamo un approccio laterale. Intanto cos'è che non va?

I ranking sono il risultato di parametrazioni che coprono cose estremamente diverse, "medie improprie". Questo vale anche per le componenti "reputazionali". Non esiste una "università tipo". Se l'università ha una caratteristica - che è nel nome - è proprio la diversità. La diversità è il paradigma del mondo universitario, sia che si guardi alla ricerca sia che si guardi all'insegnamento. Abbiamo università con 80mila studenti e altre con 800. Abbiamo università con la facoltà di medicina e altre senza; università con le ingegnerie e poi abbiamo i politecnici.
All'interno di queste diversità, coesistono corsi di base con centinaia di studenti e corsi specialistici con poche unità, convivono ricerche che richiedono gruppi numerosi e numerosi milioni di euro e ricerche che richiedono principalmente il tempo per farle. C'è chi insegna fermandosi davanti al letto di un paziente e chi per insegnare deve portare gli studenti in uno scavo archeologico o sulla bocca di un vulcano. E tutto questo è diversamente mescolato da università a università. I ranking delle università comprimono la diversità in una tabella di excel.

Perché l'analisi comparativa abbia senso occorre che avvenga tra situazioni comparabili. E sicuramente il nostro sistema universitario non è facilmente comparabile con altri.
Quale altro sistema ha lo scibile organizzato (e quindi i reclutamenti, le carriere eccetera) in 370 settori scientifico-disciplinari?
Quale altro sistema affronta con la stessa impostazione giuridico-normativa l'assegnazione di una borsa di studio di dottorato di ricerca o il reclutamento di un segretario d'ufficio o di un bibliotecario?
Quale altro Paese consente che gli studenti si iscrivano per un corso di studio senza sapere se ci saranno posti a sedere a sufficienza in aula o spazio di laboratorio per tutti?
E quale sistema consente che uno studente possa sostenere in maniera del tutto regolare l'esame di un corso frequentato 18 mesi prima e magari con un altro docente?
Potrei proseguire. Chi conosce bene le università del mondo sa che non c'è nulla di simile in quelle che ci precedono nelle classifiche.

Quindi a che servono le classifiche? Intanto, diciamo a cosa non dovrebbero servire. Non dovrebbero essere utilizzate per scegliere "dove mandare i propri figli a studiare". Scrivo questo come professore di un'università che si trova sempre nella fascia alta delle università italiane, quando non è la prima. Lo scrivo cosciente che nella mia università - come in tutte le università - la "media" contiene mediocrità ed eccellenze distribuite diversamente nelle aree e nei corsi di studio.
Occorre, quindi, un'analisi molto più raffinata, molto più "risolta", corso per corso, per scegliere dove andare a studiare.
Che fare quindi? Forse gli unici veri utenti dei "ranking" dovrebbero essere il Parlamento e il Governo. Lì ci si dovrebbe chiedere come mai le università "migliori" (notate l'uso delle virgolette) si trovano in Paesi dove i sistemi universitari funzionano in altro modo, con meno lacci e lacciuoli, e tante risorse in più, con meccanismi di selezione del personale meno cervellotici, con rapporti tra studenti e percorsi formativi di altro genere eccetera, con ben altri livelli di mobilità interuniversitaria e università-imprese.
Questa sarebbe materia della quale discutere a livello politico e a livello di Conferenza dei rettori. Potrebbe/dovrebbe portare ad atti conseguenti interessanti. Se non ammoderniamo il nostro sistema formativo, il resto serve a poco.

Prorettore alla ricerca dell'Università degli studi di Bologna

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