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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2014 alle ore 07:16.
L'ultima modifica è del 24 settembre 2014 alle ore 08:04.

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Il rombo dei nuovi caccia F-22 su Raqqa, roccaforte siriana del Califfato, il ronzio dei droni e le scie filanti dei missili da crociera Tomahawk lanciati dalla flotta nel Golfo sulle postazioni e i centri di reclutamento jihadisti: è così che americani e alleati arabi, tra questi anche i sauditi, sono entrati in guerra contro lo Stato Islamico nei cieli della Siria.

È una svolta nel conflitto che si trascina alcune incognite - sull'efficacia dei raid senza operazioni di terra - molti interrogativi - chi farà sul campo il "lavoro sporco" occupando lo spazio lasciato dal Califfato - e qualche paradosso: basti riflettere sul fatto che l'anno scorso gli Stati Uniti avrebbero voluto bombardare Assad per l'uso di armi chimiche contro i civili mentre ieri Damasco è stata avvisata dei raid. Assad ha comunque colto l'occasione per affermare che lotta da anni contro il terrrorismo dei "tafkiri", gli estremisti sunniti, anche se sa perfettamente, come dicono gli arabi, che cavalca un asino con due selle: può sfruttare i bombardamenti per attaccare i jihadisti e allo stesso tempo diventare bersaglio dei raid. Non è forse un caso che Israele ieri ha abbattuto un caccia siriano che aveva violato lo spazio aereo. Il fronte siriano, ancora di più rispetto a quello iracheno, è la parte più complicata del piano di Barack Obama per smantellare il Califfato mentre a New York inizia un'Assemblea generale Onu che sembra più un consiglio di guerra che un vertice diplomatico. Obama incontrerà il presidente turco Erdogan, assente dalla coalizione militare e con decine di migliaia di profughi curdi che premono alle sue frontiere; il premier britannico Cameron, che per ora non partecipa ai raid, avrà un colloquio con il leader iraniano Hassan Rohani, il primo a questo livello dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979. Gli iraniani, esclusi dalla coalizione, alleati di Assad e schierati contro il Califfato, contestano insieme alla Russia la legalità dei bombardamenti ma gli sviluppi militari possono avere risvolti inediti perché nell'incendio mediorientale pompieri e piromani si scambiano, di volta in volta, i ruoli.

La Turchia, per esempio, è responsabile del passaggio ai suoi confini di migliaia di jihadisti ma ora dopo il rilascio degli ostaggi in mano all'Isil, in cambio della liberazione di 50 miliziani, potrebbe intervenire con una "fascia di sicurezza" alla frontiera siriana. Lo Stato Islamico, come afferma Peter Harling dell'International Crisis Group, è un mostro provvidenziale, uno spauracchio per tenere tutti uniti e mascherare gli errori, le mancanze e il cinismo degli attori coinvolti. Il problema è che la guerra al Califfato si intreccia con altri conflitti sedimentati nel tempo. Lo scontro settario tra musulmani sciiti e sunniti, alimentato dalle tensioni tra monarchie del Golfo e Iran, la complicatissima guerra civile siriana, dove la lotta contro il regime si interseca con la concorrenza tra gruppi jihadisti, il tutto accompagnato dalle aspirazioni irrendentiste dei curdi e dalle incombenti tragedie sulla sorte delle minoranze come cristiani e yezidi: la realtà è che mentre i confini tra Siria e Iraq sono caduti da un pezzo, insieme all'offensiva del Califfato, si sta rifacendo la mappa tra la Mesopotamia e il Mediterraneo nella più totale confusione e senza nessuna "road map".

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