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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2014 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 27 settembre 2014 alle ore 10:20.

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Settantatremila dipendenti a fine 2007, prima della grande crisi, 47mila (26mila in meno) a fine 2009, subito dopo l'uscita dal Chapter 11 e l'ingresso nel gruppo Fiat. Di nuovo 73mila alla fine dell'anno scorso, e oltre 77mila a fine giugno.
La parabola di Chrysler (all'inferno e ritorno, direbbe Sergio Marchionne) sintetizza alla perfezione la durezza del modello industriale americano e al tempo stesso le opportunità che esso offre. Una parabola, quella di Chrysler, non diversa da quella che ha percorso la General Motors (anch'essa fallita nel 2009) e ben diversa dal cammino che l'intera industria dell'auto europea ha seguito dall'inizio della crisi.
Le diversità sono nella reazione delle rispettive economie – rimbalzo americano e stagnazione in Europa – e negli approcci adottati dai governi sulle due sponde dell'Atlantico. La politica industriale messa in atto con rapidità e decisione dall'Amministrazione Obama (e avviata già da George Bush) ha visto l'iniezione di fondi significativi – oltre 81 miliardi di dollari, poi in buona parte recuperati – per evitare l'avvitamento di un settore strategico: erano a rischio non solo le due aziende citate, ma anche Ford e tutta la componentistica. L'aiuto finanziario è stato però concesso a condizioni durissime, con un taglio di oltre 2 milioni alla capacità produttiva delle Big 3 fra il 2008 e il 2010 e la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro: 42mila alla Gm oltre ai 26mila di Chrysler, senza contare l'impatto indiretto sui fornitori e i tagli messi in atto autonomamente dalla Ford. Non basta: il sindacato Uaw ha dovuto accettare, al momento della bancarotta, che i nuovi assunti avessero salari nettamente inferiori a quelli degli anziani. L'insieme delle misure ha messo in condizione le Big Three di tornare competitive e di recuperare quote sul mercato nazionale.

L'approccio europeo è stato diverso. Con l'obiettivo di conservare i posti di lavoro, in una prima fase (2008-2009) i governi hanno varato incentivi alla rottamazione che hanno sostenuto le vendite; di fronte al persistere della crisi (le vendite di auto in Europa sono calate per sei anni consecutivi dal 2007 al 2013) l'occupazione è stata sostenuta soprattutto da meccanismi simili alla Cassa integrazione (utilizzata soprattutto in Italia, ma presente anche in altri Paesi); in vari Paesi i sindacati hanno comunque accettato una maggiore flessibilità e/o i governi hanno introdotto misure di questo tipo. La capacità produttiva totale in Europa non è però scesa: le fabbriche chiuse, da Termini Imerese in Italia ad Aulnay in Francia ad Anversa in Belgio, sono state compensate dall'apertura di nuovi stabilimenti nell'Est europeo, con un saldo tra il 2007 e il 2013 – secondo un recente studio AlixPartners – che è di una fabbrica in più. Gli appelli dello stesso Marchionne a una sorta di «disarmo concordato» sono caduti nel vuoto di fronte al fatto che Volkswagen, Bmw e Mercedes hanno sofferto del problema della sovracapacità molto meno della concorrenza.

I dati riferiti a Fiat Auto nel grafico qui a fianco mostrano un forte aumento dell'organico derivante dalla crescita all'estero (Brasile e Serbia) e dall'assorbimento di attività che prima non erano comprese nel perimetro come la Maserati di Grugliasco, i motori di Powertrain e di Vm. Una parte consistente dei dipendenti è però tuttora in Cassa integrazione (soprattutto a Mirafiori e a Cassino); e l'esecutivo è tuttora impegnato, a tre anni dalla sospensione della produzione, nella ricerca di qualcuno che possa reimpiegare gli operai di Termini Imerese (compreso un estemporaneo accenno di Matteo Renzi a candidati cinesi che non si sono poi materializzati).
Tornando al quadro complessivo, il problema è che la stessa capacità produttiva del 2007 si batte per conquistare una torta che nello stesso periodo si è rimpicciolita del 19 per cento. Risultato? Quasi nessuno oggi guadagna soldi vendendo auto in Europa, fatta eccezione per i costruttori premium e per quelli low cost. Finora i gruppi europei sono rimasti in attivo grazie ai successi nei mercati emergenti, dalla Cina al Brasile. Ma gli investimenti necessari ad assicurare la competitività globale nel lungo periodo sono stati spesso rinviati – come nel caso della Fiat. E ora che l'orizzonte si fa più scuro nei Bric, l'Europa sarà uno dei campi di battaglia decisivi.

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