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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 14:00.
L'ultima modifica è del 28 settembre 2014 alle ore 14:56.

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La classe operaia sarà anche morta, ma il sottoproletariato vive e lotta insieme a noi. Per accorgersene basta guardare Belluscone, il nuovo film di Franco Maresco. Impresari di luminarie, neomelodici, cassamortari, scippatori, procacciatori di femmine e "ospiti dello Stato" (e cioè, detenuti sotto "metafora") fanno il racconto di qualcosa che c'è ma non si vede.

È un sottosopra di sviluppo, il sottoproletariato. Tutta vita, malavita e sottovita. Una Bmw con lo stereo a palla ("il Bmw" al maschile, così si dice in quel mondo molto maschile) scivola per le strade. È la macchina di un pappone. «Ha la femmina che gli lavora», così si dice sempre in quel mondo. E se il conteggio dell'economia reale si fa forte del tesoretto ricavato dall'economia illegale - con la risulta della malandrineria che va in soccorso del Pil - l'auto-welfare tutto meridionale e tutto metropolitano del Sud resta la vena viva di una spaccato sociale onnipresente ma assente.

Nelle cronache, infatti, questo mondo fatto di feste di piazza e delinquenza diffusa non esiste, né è mai evocato dalla politica (se non in campagna elettorale per farne un granaio): è frullato nella sociologia, è declassato al rango di sottocultura ma nella conta della sostanza è da sempre fascia protetta nel trionfo del sommerso che fa di ogni quartiere (sia esso un basso, come a Napoli; un catoio, come a Palermo; un sottano, come a Bari) un presepe nero, il risultato barocco del lutto sociale del degrado dove la morale è piegata alle esigenze primarie: lo scippo, lo spaccio, il possesso del territorio. «Tuo figlio dov'è?» domanda una donna a un'amica. È in carcere. Ma si dice così: «Un infame se lo chiamò». E così parla quella madre.

Vive nelle città capitali del Sud, il sottoproletariato, nei luoghi dove non c'è mai stata una borghesia. Abita accanto alle dimore dell'aristocrazia in rovina. I "Quartieri spagnoli", a Napoli, stanno alle spalle di Palazzo Reale. A Palermo è Palazzo Butera ad aprire la scena al grande catoio della Kalsa. È l'aristocrazia in disarmo che, storicamente, genera intorno a sé il verminaio di casupole e di umanità che alloggia ai margini della redenzione socio-economica. La pedagogia sociale della modernità ha poi creato lo Zen a Palermo (disegnato da Vittorio Gregotti), Librino a Catania (progettato da Kenzo Tange). E come tutti gli altri non-luoghi della proliferazione degli hinterland (compresa Roma, capitale di un sottoproletariato in innesto di suburra, oggi teatro del "rammendo" evocato da Renzo Piano), tutti questi luoghi - dove Cristo ha perso le scarpe - si confermano nel solco del presepe nero. È un vero e proprio mondo dietro il mondo, che non riesce né a essere Corte dei Miracoli, come nell'universo sotterraneo di Parigi, né ad avere le potenzialità rivoluzionaria delle banlieue di Parigi. Tatti Sanguineti - il Virgilio narrante nel film di Maresco - attraversa la Kalsa e può ben citare Karl Marx e diffidare "dell'inaffidabilità rivoluzionaria del sottoproletariato".

Il sottoproletariato non è socialmente riconoscibile neanche ne Il Capitale di Thomas Piketty: pur nel diffuso argomentare di "flusso successorio", non ce n'è da traccia. L'unico vero libro che davvero descriva quel sottoproletariato che bussa ai nostri giorni è Nostra Signora della Necessità di Giuseppe Sottile (Einaudi), ma è comunque un muro d'ignoranza reciproca quello che separa i Ciccio Mira dei quartieri (il manager dei cantanti popolari) dal resto della giornata d'Italia dove abitano il sussiego dell'elite e l'impegno civile. Le pagine di Marco Ciriello, in Vangelo a benzina (Bompiani), tutte scavate lungo la Domiziana (la statale che percorre come una spina dorsale la Campania), evocano l'ingombro di un mondo estraneo, attivo e delinquente al modo di Cesare Lombroso, tanto - con l'occhio della letteratura - è sgargiante la distanza tra il "flusso" delle sparatine e il "successorio" di sopravvivenza, quello dell'accumulo antropologico.

Ogni inseguimento della polizia - in un copione che si ripete in tutti i quartieri delle città del Sud - vede la gente mobilitarsi a fare da impedim-ento alla giustizia. E il presepe è nero anche nel senso di profitto. È la cittadella del pagamento in nero, il fortilizio del fatturato in nero, tutto un mondo chiuso e concluso in un linguaggio cinico, surreale e apodittico dove tutto è vero e non è vero e ogni ragionamento è pari a nulla.

È una lingua segreta, quella del sottoproletariato, che solo i rabdomanti della semiologia - l'ultimo dei quali, Franco Maresco, con il succitato Belluscone (dove Berlusconi, va da sé, è solo un pretesto) - sanno discernere: il rutto messo in scena vale più di un saggio analitico di qualunque novello Leopoldo Franchetti o di un altro Sidney Sonnino. Maresco discende da una genia di poeti la cui dote era portare alla luce la lingua surreale del popolo. Come Beppe Schiera durante il fascismo, come Salvo Licata - giusto per restare a Palermo - negli anni ancor più cupi della democrazia cristiana.

Maresco, ancora qualche giorno fa, ha fatto un appello. Chiede che il proprio film, il più sbigliettato al botteghino tra i titoli presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, non venga ritirato dalle sale. L'automatismo, nella censura, riguarda non certamente la politica - per il far torto a qualcuno dei suoi, figurarsi a Forza Italia, ormai residuale - bensì una sorta di pudore: mettere tutto questo sottoproletariato sotto il tappeto dell'indifferenza. Il film, per dirla con la metafora più atroce, è stato "pilastrato", infilato in una betoniera e impacchettato per continuare a non vedere ciò che il Def, coerentemente, ha già radiografato. E il sottosopra, pur da dentro il pilastro, sviluppa. Perfino il Pil. Per arrivare dove Cristo ha perso le scarpe.

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