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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2014 alle ore 06:39.
L'ultima modifica è del 01 ottobre 2014 alle ore 08:04.

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Il discorso letto da Mario Draghi in agosto nel convegno di Jackson Hole segna un'evoluzione di particolare importanza nelle posizioni della Bce. Le tesi esposte nel discorso, ribadite a Milano, pur con qualche cautela di linguaggio, alla fine della scorsa settimana nell'incontro che ha preceduto la riunione dei Ministri delle Finanze della Ue, non possono non essere attentamente meditate dalla leadership politica europea. Del resto, a conferma dell'importanza di quelle parole, vi sono le rivelazioni di un giornale tedesco sull'irritazione della Cancelliera Merkel e del ministro Schauble nei confronti di Draghi e il testo di un'intervista del Presidente della Bundesbank anch'essa molto critica nei confronti delle posizioni della Bce.

La novità contenuta nelle parole di Draghi non riguarda tanto la politica monetaria che pure va orientandosi in senso espansivo, come segnalano la nuova riduzione dei tassi di interesse e l'ampliamento del programma di quantitative easing annunciati al termine del Consiglio direttivo della Bce. La svolta sostanziale è riassunta nell'affermazione che la disoccupazione europea non può essere spiegata soltanto con riferimento alle condizioni strutturali, cioè alle rigidità del mercato del lavoro, ma dipende anche da una insufficienza della domanda aggregata.

Nel discorso di Draghi, vi sono due frasi particolarmente significative. La prima è questa: «I dati più recenti sul Pil confermano che la ripresa nell'eurozona è debole ovunque, e la crescita dei salari è minima anche nei paesi meno colpiti dalla crisi; ciò indica una debolezza della domanda». L'altra, ancora più importante, deve avere suonato il più forte campanello di allarme negli ambienti che hanno dominato fino ad oggi la politica economica in Europa: «Le politiche di intervento sulla domanda - scrive Draghi - non sono giustificate soltanto dalla significativa componente ciclica della disoccupazione. Esse sono rilevanti perché, data l'incertezza che prevale in questo momento, (queste politiche) contribuiscono ad evitare il rischio che la debolezza dell'economia produca un effetto di isteresi (un circolo vizioso in cui la depressione della domanda distrugge la capacità produttiva ndAA). Ed aggiunge: «Oggi i rischi di "fare troppo poco" - e cioè il rischio che la disoccupazione divenga strutturale - sono maggiori dei rischi "di fare troppo" - cioè di determinare un'eccessiva pressione in aumento per i prezzi ed i salari».

Dunque, la Bce si è finalmente allineata alle analisi di quanti fra gli economisti, ormai da molto tempo, richiamano l'attenzione sull'insufficienza della domanda e sulle conseguenze che ha avuto in Europa l'insistenza perniciosa sulla priorità del risanamento dei conti pubblici. Il Fondo Monetario era giunto a questa conclusione già due anni fa e così la pensa il governo americano, come risulta dalla lettura delle memorie del ministro del tesoro Geithner, pubblicate da qualche mese. Ora è finalmente la Bce a cambiare posizione.

A noi sembra inutile recriminare sui tempi di questa revisione e sul fatto che intervenga tardivamente quando ormai rilevanti fenomeni di isteresi si sono saldamente insediati in Europa e, soprattutto, in Italia. Non si può non riconoscere l'importanza per il futuro di una presa di posizione che proviene dalla maggiore autorità di politica economica dell'area dell'euro.

L'implicazione principale dell'analisi di Draghi è che da sola la politica monetaria non è in grado di garantire la ripresa economica: serve un contributo sostanziale delle politiche fiscali. Lo ha esplicitamente detto lo stesso Draghi il 4 settembre scorso a Milano, aggiungendo che i trattati europei prevedono già dei margini di flessibilità che possono essere utilizzati in questa circostanza: per agire non è necessaria una loro revisione.
Draghi chiede che i paesi nei quali vi è un margine per politiche fiscali non restrittive - il riferimento è soprattutto alla Germania - facciano politiche espansive tali da trainare la ripresa anche di quei paesi le cui condizioni di finanza pubblica non lasciano margini sufficienti per un'azione nazionale, se non violando gli impegni previsti nei trattati. Questo è il punto cruciale della nuova posizione della Bce.

Per questa ragione a noi sembra indispensabile che, senza polemizzare sui parametri e sulle regole europee, i governi di alcuni paesi - in primis la Francia e l'Italia - raccogliendo l'esplicito invito di Draghi aprano una discussione con le autorità europee e con la Germania in particolare per valutare il da farsi nei paesi dove c'è "spazio fiscale". L'Italia potrebbe e dovrebbe rivendicare, come ha detto il Governatore della Banca d'Italia in una recente intervista, di avere fatto in questi anni importanti interventi strutturali, dal mercato del lavoro alle pensioni, al recupero dell'avanzo pubblico di parte corrente. È il momento di raccogliere l'assist di Draghi e di giocare la partita europea in attacco chiedendo alla Germania di fare finalmente la sua parte. Se lo facesse, anche gli altri paesi europei - trovandosi di fronte vincoli esteri e fiscali meno stretti - sarebbero in grado di contribuire alla ripresa economica dentro il quadro dei trattati esistenti.

Draghi sta provando a cambiare la narrativa della crisi: premessa necessaria per una svolta della politica economica tedesca, tante volte invocata anche dal G20. Ma la Bce non ha alcuno strumento monetario o giuridico per imporre questa svolta alla Germania: solo un negoziato politico può farlo. Il paradosso è che finora ad accorgersi del senso profondo della rivoluzione di Draghi siano stati soprattutto gli oppositori della svolta, mentre chi dovrebbe cogliere immediatamente la novità di Jackson Hole, resta ancora in bilico fra polemiche generiche sui parametri europei e promesse di attenervisi costi quel che costi.

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