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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2014 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 14 ottobre 2014 alle ore 08:30.

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La polemica suscitata dalla proposta di portare i Bronzi di Riace all'Expo 2015 riassume in modo esemplare l'incapacità dell'Italia di valorizzare un patrimonio culturale senza pari. Mi limito a considerare tre profili, a cominciare dalla scarsa capacità di programmazione.

Il dibattito sui bronzi è legittimo ma tardivo. L'Expo è stata assegnata nel marzo 2008. Di opere d'arte si comincia a parlare ad appena 240 giorni dall'apertura. Pochi per organizzare trasporti speciali, permessi, assicurazioni, comunicazione e marketing, promozione per i territori di provenienza. Moma e Guggenheim di New York pianificano le esposizioni con anni di anticipo. (L'idea, peraltro, era stata lanciata ben prima di Vittorio Sgarbi da Benito Benedini, presidente del gruppo 24 Ore, agli Stati generali della cultura del novembre 2013. Ma allora era stata considerata poco più di una provocazione).

Il secondo profilo riguarda la prevalenza dell'amor di polemica e della demagogia, rispetto allo spirito collaborativo rivolto a un comune obiettivo. L'ipotesi dei prestiti - estesa anche ad altre opere, come l'Arcimboldo da Cremona - è motivo di scontro fra sovrintendenze, Comuni e Regioni: non si cerca una soluzione ragionevole per esporre le opere senza metterne a rischio l'integrità e massimizzando i vantaggi per il territorio di provenienza; si punta al consenso mediatico e alla denigrazione dell'avversario. La logica ricorda quella del Palio di Siena: impedire la vittoria della contrada rivale conta molto più della propria vittoria. Il campanilismo, splendido nel Palio, intristisce molto il dibattito culturale e politico.

Delude anche la posizione un po' demagogica (e si spera non influenzata dalla prossima scadenza elettorale in Calabria) del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, secondo il quale «è insensato portare i bronzi a Milano, anziché portare a Reggio i visitatori di Expo»: ragionevolmente, quanti dei 20 milioni attesi voleranno sullo Stretto? In questo primo anno di riapertura, il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria staccherà, nella migliore delle ipotesi, 200mila biglietti. In un secolo, forse, pareggerà il conto con Expo (i bronzi, dall'alto dei loro 25 secoli, non hanno fretta).

In Italia, infine, si sottovaluta il potenziale (anche economico) del patrimonio artistico-culturale, perciò non si investe per sfruttarlo. La cultura è un giacimento di petrolio che non sappiamo estrarre (come, del resto, non vogliamo estrarre neppure il petrolio "vero", presente in Basilicata e nel Mare Adriatico...). Quanto è stato colto e valorizzato, dagli operatori pubblici e privati sul territorio, il potenziale economico (ben al di là dei biglietti venduti nei musei) dell'Ebe di Canova a Forlì, dell'Ortolano di Arcimboldo a Cremona, della Vucciria di Guttuso a Palermo? Possedere un capolavoro non basta: occorre costruirci attorno infrastrutture, un bacino turistico, una storia di comunicazione, un'immagine, utilizzare le tecnologie digitali, coinvolgere le altre eccellenze del territorio (artistiche e paesaggistiche, enogastronomiche e musicali, artigianali e imprenditoriali).

Forse di sola cultura non si mangia, ma la cultura è un catalizzatore di crescita. Numerosi esempi di successo, in Italia e all'estero, mostrano che la gestione professionale e la valorizzazione del patrimonio culturale possono nutrire molte persone. Gli Stati Uniti l'hanno capito da tempo. A Plymouth Rock, in Massachusetts, dove nel 1636 i primi coloni europei sbarcarono dalla Mayflower, il villaggio dei Padri Pellegrini è oggi un museo vivente, popolato di studenti universitari nelle parti di contadini, fabbri, falegnami, che spiegano la storia americana a centinaia di migliaia di visitatori provenienti da ogni parte d'America. Plymouth Rock non possiede neppure un monumento, ma l'economia locale trae enormi benefici dal villaggio. Noi siamo fermi ai centurioni abusivi in posa davanti al Colosseo. In Louisiana, un eccellente posizionamento basato su carnevale, musica jazz e cucina del Sud ha trasformato New Orleans - città francamente modesta - in meta turistica di grandissimo richiamo, anche dopo l'uragano Katrina del 2005 e il grave incidente petrolifero nel Golfo del Messico del 2010. Si può fare anche in Italia. Gli esempi non mancano, e possono essere replicati ovunque partendo da uno dei punti di forza del territorio: come Cioccolatò a Torino, il Festival Verdi a Parma, il Museo del violino a Cremona. Purché si usino tre ingredienti: più pianificazione, meno polemiche, maggiore fiducia nel potenziale economico della cultura. Altrimenti i Bronzi di Riace prestiamoli a New Orleans, che verserebbe volentieri una ricca royalty, ben sicura di ripagarsela con gli interessi.

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