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Questo articolo è stato pubblicato il 17 ottobre 2014 alle ore 06:39.
L'ultima modifica è del 17 ottobre 2014 alle ore 18:13.

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Un groviglio di muri, tetti, scale, facciate, caverne, cattedrali barocche e chiese rupestri che precipita verso il fondo. Il caos apparente si scioglie in un'architettura spontanea che ha meravigliato mezzo mondo: Matera è questo e molto altro. Un sole ferocemente antico, scriveva Pierpaolo Pasolini. Una bolla neolitica inframezzata dai canyon sprofondati nell'altopiano delle Murge. E corsi d'acqua che incidono le gravine come il fiume Colorado in Arizona. Una città ecosostenibile dalla notte dei tempi, con l'acqua piovana raccolta in enormi cisterne e i giardini pensili in stile babilonese punteggiati da piante di fichi. Un giardino di pietra che profuma di cosmogonia, uno sguardo sull'origine e la fine del mondo.

L'Unesco, nel '93, li innalza al rango di patrimonio dell'umanità, inserendoli nella World heritage list. Ma molto prima che gli stranieri li scoprissero furono gli italiani a elevarli a simbolo della miseria contadina e di una «vergogna nazionale» per Palmiro Togliatti. La legge De Gasperi del '53 svuota i Sassi di 16mila abitanti e li trasferisce nei nuovi quartieri di La Martella, Venusio, Serra Venerdì, Spine Bianche.

Poi i riflettori si spensero. La coscienza nazionale fu placata, non c'erano più uomini che vivevano con gli asini. Tocca all'Unesco riaccenderli e tocca al Comune, con la legge 771 dell'86, recuperare i Sassi e farne un luogo al di sopra del tempo. Un processo lento, pieno di contraddizioni, contrassegnato da una serie di incertezze. Pietro Laureano è l'architetto che istruì il dossier per la candidatura di Matera. E racconta la guerra neppure sotterranea combattuta negli anni 80, quando i sovrintendenti sostenevano a spada tratta la museificazione dei Sassi. L'idea era quella di trasformarli in una natura morta, di stravolgere questo capolavoro con iniezioni di cemento armato. Per fortuna prevalse l'esercito di scalpellini armati di cazzuola e malta, un'opera silenziosa e inarrestabile dei laboriosi artigiani lucani che riportarono i Sassi alla sua autentica natura di città ecosostenibile ante litteram.

La casa appartenuta a Josè Ortega, appena ristrutturata dopo anni di faticosi lavori, è uno dei punti di osservazione più commoventi. Le terrazze affacciate sull'altopiano delle Murge trasfondono, come spiega Raffaello De Ruggeri, l'avvocato presidente di Zétema innamorato cantore della sua terra, una «sorta di invulnerabilità».

Qui Vittorio Storaro, maestro e premio Oscar della fotografia cinematografica, in preda a un raptus ha scattato oltre 3mila fotogrammi. Lo scultore e pittore spagnolo l'acquista nel '74, quando elegge Matera città adottiva («ho trovato un'angoscia e una miseria che sono quelle della mia gente, la pelle dei braccianti scura e secca come quella dei contadini spagnoli»). Parole e storie che spiegano il capovolgimento di un paradigma, la conservazione di un patrimonio tornato a nuova vita e la scelta lungimirante dei materani, guidati da un gruppo di intellettuali riuniti nel circolo La Scaletta, di riabitare dopo una cesura di quarant'anni il sasso Caveoso e il sasso Barisano, due mezzi imbuti con la Civita in mezzo che a Primo Levi parvero la traduzione terrena dei gironi danteschi.

Il resto è storia recente. La candidatura a capitale europea, la nomina a direttore del comitato di un esperto nella gestione degli eventi culturali come Paolo Verri, allievo di Beniamino Placido, la mobilitazione della comunità materana che rivaleggia solo con i salentini quanto a calorosa ospitalità, spirito vitale e incarnazione del pensiero meridiano.
Matera e il suo magma energetico sono un incubatore naturale del Sud prossimo venturo, come se le caverne del Caveoso con 15 gradi costanti di temperatura d'estate e d'inverno fossero la metafora di un microclima che dai tempi del neolitico fa germogliare il futuro.

Curioso, ma rivelatore, che prima del 2008 né il torinese Paolo Verri né l'anglo-umbro e direttore artistico Joseph Grima avessero mai messo piede nella città lucana, amata e frequentata più dagli stranieri che dagli italiani. Grima è lapidario: «No agli eventifici,sì a un laboratorio che esporti nel mondo un nuovo modello di cittadinanza culturale. Matera può insegnare molto al resto d'Europa». Due sono i pilastri sui quali scommettono Verri e Grima nella "fase aurorale", cosi la chiamano, della nomina a capitale europea: il Dea, l'istituto demo antropologico, e l'open school of design, una scuola orizzontale fatta dagli stessi allievi. Confessa Verri: «Qui bastano dieci persone per cambiare tutto».

A Matera, in realtà, più che nelle grandi aree del Sud cogli in vitro le trasformazioni di un tessuto sociale che solo cinquant'anni fa era immerso nella ruralità primitiva del pianto funebre studiato dall'etnologo napoletano Ernesto de Martino, al quale verosimilmente sarà intitolato il museo antropologico.

Dai pianti funebri alle lacrime di gioia per la nomina a capitale della cultura 2019? «Da vergogna a orgoglio» ripete de Ruggieri affacciato al tramonto sul terrazzo di casa Ortega, mentre il crepuscolo, come un sipario, cala sul giardino di pietra.

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