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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2014 alle ore 08:41.

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Sviluppatosi pressoché senza regole, come luogo ideale di creatività e innovazione, l'ecosistema internet sta diventando una miniera preziosissima di contenuti, di contatti, di opportunità.

Oggi ci rendiamo conto che alcuni punti fermi vanno definiti. La “Declaration of Independence of Cyberspace” di J.P. Barlow è un grande anelito ideale, ma è intraducibile in termini concreti. Non si può pretendere di reclamare libertà senza limiti, perché si sfocerebbe nell'arbitrio e la tutela del “naturale” verrebbe sostituita, come in biologia e in etologia, dalla legge del più forte.

Da più parti emerge la necessità di pensare a una regolazione leggera e al contempo seria, equilibrata, precisa, che soddisfi i diversi interessi in gioco, salvaguardando gli uni senza penalizzare gli altri - ossia tutelando il multistakeholders system. Una regolazione che non vada a minare la funzione primaria della rete, quella di consentire una comunicazione di un'intensità senza precedenti nella storia.

La carestia di diritti che si è respirata fin qui non è un bene: è una questione che non può essere più ignorata. Perché oggi sulla rete ci sono le nostre identità. Quello che un tempo era virtuale, diventa reale. Sulla rete si esprimono libertà che si traducono in diritti: e i diritti vanno definiti, affinché non rimangano solamente “sulla carta”. Da questo punto di vista, il lavoro della Commissione di esperti presieduta da Stefano Rodotà e fortemente voluta dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, è uno sforzo encomiabile che non deve però mettere in secondo piano la necessità di assicurare l'applicazione di quelli già esistenti.

Resta da indagare, a nostro avviso, il nuovo rapporto che si instaura, nell'ecosistema internet, tra libertà e proprietà, e segnatamente tra la libertà d'espressione (digitale) e la proprietà dei dati generati da quella libertà.

L'avvento del “capitalismo digitale” ci consegna, infatti, un inedito rapporto tra libertà e proprietà rispetto alle caratterizzazioni del 900. I nostri “comportamenti digitali” sono, a un tempo, figli della nostra libertà di espressione e, in quanto elementi dei big data, oggetto di appropriazione esclusiva da parte di terzi. Più aumentiamo la nostra libertà digitale e l'intensità della nostra dimensione su internet, più ricco è l'insieme di dati di cui altri si appropriano. La libertà digitale genera nuove forme di proprietà privata digitale, che non appartengono più a chi le ha generate, né possono da questi essere controllate, indirizzate, modificate. Questo inedito divorzio tra libertà e proprietà pone, tra le altre, due rilevanti questioni.

La prima riguarda la tutela della privacy, intesa non più come diritto a “restare soli”, ma come strumento (eroico?) di controllo del nostro “sé elettronico”, disperso sulla rete e non più riappropriabile. La seconda concerne l'automatica ed endogena monopolizzazione dei “mercati dell'attenzione” da parte di chi mantiene la proprietà privata della profilazione dei dati.

Si tratta di due fenomeni destinati a mutare, nel tempo, il valore della rete, proprio in ragione del divorzio tra libertà e proprietà. La monopolizzazione dei mercati dell'attenzione, in assenza di meccanismi volti a fornire accesso alle nuove essential facility rappresentate dai big data, può esacerbare questo divario, facendo peraltro venir meno proprio la disciplina concorrenziale dinamica sui mercati digitali.

Non basta comunque enunciare i diritti. È necessario attuarli. L'Agcom deve giocare un ruolo di primo piano in questa sfida, perché la legge le attribuisce il compito di assicurare i diritti fondamentali della persona (anche in riferimento ai dati personali e alla vita privata). L'Autorità dovrebbe anche partecipare alla governance globale della rete, perché è in grado di dar ascolto alle diverse voci. Nel caso del pluralismo, della tutela dei minori e del diritto d'autore, il forte coinvolgimento delle parti ha introdotto un modello equilibrato di governo aperto, in cui è costante l'ascolto e il contributo delle parti interessate e continua l'attenzione verso i diversi interessi in gioco. Ciò permette di monitorare le regole, calibrarne l'attuazione e correggere il tiro, se necessario. È un approccio che si sposa perfettamente con il multistakeholder system di cui si parla nell'arena internazionale.

È questa la strada da seguire nel «processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani», come ci ricorda Amartya Sen, valorizzando - ed eventualmente migliorando - il quadro delle regole esistenti.

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