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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2014 alle ore 06:39.
L'ultima modifica è del 29 ottobre 2014 alle ore 08:16.

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Un bilancio, dal titolo pirandelliano, di 50 anni in magistratura. È quello dell'ex capo, per 7 anni, della Procura di Napoli, Giovandomenico Lepore, nel libro-intervista (con Nico Pirozzi) «Chiamatela pure giustizia (se vi pare)», Edizioni Cento Autori. Il libro, presentato ieri a Milano alla Casa della cultura, si muove su una doppia direttrice. Da una parte la riflessione, spesso smagata, sulla crisi della giustizia penale, con i suoi 3 milioni e rotti di procedimenti pendenti, sulle sue ragioni e sui possibili rimedi; dall'altra, il ritorno alla ribalta di vicende che hanno segnato la storia giudiziaria del Paese, non solo della Campania.

Dal "caso Tortora" alla guerra ai Casalesi, passando per i (purtroppo) ancora troppo frequenti legami tra politica e criminalità, tra Alfonso Papa e Nicola Cosentino.
Così, sul banco degli imputati, in una pacata ma non meno severa requisitoria favorita dal botta e risposta tra magistrato e giornalista, sale un Codice di procedura penale «che ha generato più confusione che benefici, causa l'introduzione di filtri su filtri, di nessuna utilità pratica». Con un giudice che arriva al dibattimento all'oscuro di tutto e dove non si capisce neppure più a cosa servono le indagini preliminari, presidiate da una proliferare di garanzie, se poi nulla di quello che vi viene raccolto può valere come prova nel dibattimento.

La ricetta Lepore ha pochi punti chiave, che, se tradotti in legge, sconvolgerebbero alla base la nostra giustizia. In ordine sparso: blocco della prescrizione dopo il giudizio di primo grado, cancellazione del divieto di peggiorare in appello e Cassazione le misure per l'imputato, revisione delle piante organiche, non indulgendo per forza a tentazioni di rottamazione come quella che dal 2015 decapiterà i vertici degli uffici retti da magistrati con oltre 70 anni di età, spazio maggiore all'iniziativa della polizia giudiziaria.
Su uno degli emblemi storici della "malagiustizia", l'arresto, la condanna in primo grado e l'assoluzione successiva di Enzo Tortora, Lepore non esita a considerare il pm di allora Diego Marmo, «la seconda vittima di quel processo».

Per l'ex procuratore di Napoli, Marmo, «persona cristallina», si convinse, in buona compagnia (la tesi colpevolista, ricorda Lepore, venne sposata da intellettuali come Camilla Cederna e Giovanni Arpino), della colpevolezza di Tortora che ebbe anche la drammatica sfortuna di essere coinvolto in un processo che contava altri 246 imputati, fatto che condizionò negativamente la qualità del dibattimento.

In una Milano dove la Procura è scossa quasi quotidianamente dagli sviluppi dello scontro tra il capo dell'ufficio Edmondo Bruti Liberati e l'ex (perché rimosso) capo del pool anticorruzione Alfredo Robledo, Lepore ricorda l'inchiesta «Rompiballe», filone dell'indagine sull'emergenza rifiuti, dove si vide costretto a stralciare, in dissenso con i suoi sostituti e facendosi forte della più robusta centralità del capo procuratore nel nuovo ordinamento giudiziario, la posizione dell'allora sottosegretario Guido Bertolaso e di 2 prefetti. Scelta corretta, visto che, successivamente, venne disposta l'archiviazione per i 3, ma che portò a un successivo procedimento del Csm e a un intervento del Presidente della Repubblica sulle funzioni «ordinatrici e coordinatrici che spettano al capo dell'ufficio requirente».

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