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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 04 novembre 2014 alle ore 10:15.

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In un video del 7 ottobre 2001, Osama bin Laden stigmatizzava l'umiliazione subita dall'Islam «per più di ottant'anni». Il riferimento era alla sconfitta dell'ultimo sultanato, nel 1918, e alla spartizione dell'ex Impero Ottomano in nuove entità territoriali sottoposte, dalla Società delle Nazioni, al mandato delle potenze coloniali. Intanto, la penisola arabica veniva liberata dal leader nazionalista Mustafa Kemal, Atatürk.

Nel 1923 il Trattato di Losanna riconosceva la Turchia moderna. Atatürk , ritenendo i sistemi occidentali indispensabili per modernizzare il paese, procedette, nel 1924, all'abolizione del califfato e alla creazione di uno Stato repubblicano laico. Durante la Seconda guerra mondiale la Turchia restò neutrale, ma le minacciose pressioni di Mosca e la Guerra fredda spinsero Ankara ad abbandonare la neutralità e a entrare nella Nato nel '52. L'alleanza con l'Occidente non riuscì a eliminare, però, disordini sociali e colpi di stato militari. Negli anni 80 le misure liberalizzatrici del premier Turgut Ozal cominciarono ad aprire agli scambi esterni il sistema economico. Ma nel decennio successivo una crisi, il conflitto con i curdi e le devastazioni dei terremoti del 1992 e del 1999 raffreddarono lo sviluppo.

La svolta per Ankara arrivò dopo la crisi del 2001, quando il ministro delle Finanze Kemal Dervis, con l'aiuto del Fmi, varò i provvedimenti di ristrutturazione del sistema bancario, d'indipendenza della banca centrale e di controllo dell'inflazione. Con la vittoria del partito islamico-conservatore AKP nel 2002 e la nomina di Recep Tayyip Erdogan a primo ministro il paese ha conosciuto un boom. La Turchia ha beneficiato del massiccio afflusso di fondi esteri messi in moto dalle politiche di stimolo delle autorità monetarie americane dopo la crisi del 2008, registrando una crescita del 9,2% nel 2010 e dell'8,8 nel 2011. Oggi le tensioni geopolitiche hanno aumentato i timori di un indebolimento. Nel 2014 la crescita dovrebbe fermarsi al 3%, meno del previsto ma migliore degli altri paesi mediterranei; non si escludono rischi di stagnazione per la rilevanza della domanda del settore pubblico e dell'eccessivo focus sulle costruzioni. Perciò, malgrado le ambizioni di Erdogan di inserire il paese nella top ten delle economie mondiali, la Turchia resta vulnerabile: con un'inflazione al 9% e un deficit delle partite correnti al 6%, i più elevati fra i mercati emergenti a rapida crescita, vive per lo più di capitali stranieri. Se si escludono aree come la grande Istanbul e l'entroterra della costa egea, che esportano elettrodomestici e auto, il resto del paese produce beni a basso valore aggiunto. Inoltre, nel 2012, era 38° al mondo per spesa in R&S sul Pil, 72° per impieghi nei servizi ad alta conoscenza, e 120° su 136 paesi per gender equality. Solo il 50% della popolazione attiva lavora, i 2/3 ha un'istruzione elementare o meno e il 30% dei giovani è privo di istruzione, job training o lavoro.

La "nuova Turchia", inoltre, risulta in sostanza come una sostituzione del regime repubblicano kemalista con uno islamista. I licei religiosi sono aumentati del 73% dal 2010 e raddoppiati in 5 anni. Molti ragazzi, anche non musulmani, sono iscritti d'ufficio alle scuole religiose islamiche. L'obbligatorietà dei corsi di religione e conoscenza morale ha allertato anche la Corte europea dei diritti umani e alla marcata influenza islamica nella formazione si sono aggiunte le misure di drastico irrigidimento del controllo su internet approvate dal Parlamento in settembre.

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